Rassegna stampa - Spettacoli
       
      O - Z
      Emerald City
       
     

Simone Caputo, Emerald City

Jan Mozetic, Emerald City

Tommaso Isabella, 3D / Emerald City

Francesca Giuliani, Confessioni / Emerald

Maurizio Mei, Mimicry / Emerald

Graziano Graziani, La magia al potere: intervista a Chiara Lagani

Maria Dolores Pesce, "Kansas" e "Emerald City"

Carlotta Tringali, Benvenuti a Emerald City

Renato Palazzi, Emerald City + HIM

Francesca Brancaccio, La realtà, l'illusione, l'inganno

Roberto Rinaldi, Fanny & Alexander scuotono le coscienze dell'uomo

Giulia Taddeo, 20 anni di Fanny & Alexander. Mitologie a confronto nella Emerald City

       
       

  Emerald City
     

Simone Caputo, Nero su Bianco, nr. 4, Santarcangelo, 15 luglio 2008. Redazione a cura di Altre Velocità / Suole di vento

     

 

     

Sarebbe tragico se la sterilità dovesse essere in qualche momento il risultato della libertà. La libertà si conquista perché si spera sempre nel parto di energie produttive. Ed Emerald City è energia: prima sotterranea e compressa, quindi deflagrante e aurale. Uno sforzo titanico: riflettere sull’uomo, la verità, la conoscenza. Attraverso il primato di vista e udito, i due sensi violentati della contemporaneità. Come uomini e donne dagli occhi accecati e dall’udito otturato varchiamo la soglia del mondo ricco e attraente di Emerald City, mondo in cui Fanny & Alexander provano a liberarci, raccontandoci, in fondo, la storia dell’uomo, la storia della sua tremenda ambiguità. Le mura di Emerald, come quelle di Gerico, rilasciano le inconfessabili parole degli uomini: parole che dicono, descrivono, informano, ma soprattutto emanano. Una babele sinfonica sincera ma tremendamente difficile da tradurre: popolo in cerca, aspettiamo che qualcuno ci aiuti a comprendere e ci liberi dall’attesa, imponga agli altoparlanti una stessa chiara e ipnotica frequenza. Perché noi uomini non vogliamo ascoltare voci diverse. Perché la nostra libertà non si accontenta più di se stessa, dispera della possibilità di scegliere da sé e cerca tutela e sicurezza nell’oggettività. Essa riconosce se stessa assai presto nei legami, si attua nella subordinazione, in una legge, in una regola, in una costruzione, un sistema: cessa di essere libertà. Il mago/Hitler ascolta e memorizza, così da poter interpretare e possedere la storia, manipolare la cultura di un popolo, canalizzare le speranze e la violenza. Proprio come fece entusiasta il popolo tedesco, accogliamo con ritrovato sollievo il tacere delle voci e, spinti dall’irrefrenabile desiderio di seguire, obbediamo senza tentennamenti al diktat del mago: “seguitemi, fate quel che dico!”. Una tremenda dimostrazione dell’attrazione che sull’uomo esercita la bellezza del potere, la banalità del male. Il mago si è alzato: effige santa, icona sospesa, specchio delle verità, ci mostra tutta la cialtroneria del potere. L’Hitler che osserviamo sospeso sulle nostre teste è lo stesso mostratoci da Sokurov ne Il Sole: come in quel caso siamo sorpresi dalla sua grottesca pochezza, eppure restiamo immobili, fermi, a bocca aperta, a dar credito a un teatrante, a un santino. Emerald City è uno squarcio sulla storia dell’uomo, è un abbagliante faro puntato sulla nostra contemporaneità, è un monito interrogativo: e il nostro cervello, il nostro cuore, il nostro coraggio dove sono andati a finire? Emerald City è un invito a una consapevolezza del passato per nulla passiva: per non essere complici sottomessi di un passato che è sempre con noi, che si nutre di noi e che non finisce mai. La congiunzione messa in atto tra luce e suono, tra luce e parola, mette in relazione quella di Fanny e Alexander con le narrazioni delle origini, degli eventi primordiali, dei miti e della conoscenza del mondo; la musica si fa potente intermediario tra orecchio e occhio, tra i punti mobili ed estremi di uno spazio che è sempre da esplorare e da interrogare. Uno spazio che sembra condurci alle soglie di un mistero.

       
       

Torna ad inizio pagina

  Emerald City
     

Jan Mozetic, Nero su Bianco, nr. 4, Santarcangelo, 15 luglio 2008. Redazione a cura di Altre Velocità / Suole di vento

     

 

     

Un Hitler in ginocchio è costretto ad ascoltare le confessioni e le richieste atone fattegli da voci distanti. È da qui che scaturisce anche la pietà verso questo totem, ridotto a feticcio da un mondo dove i dieci comandamenti sembrano essere stati sostituiti da oscure leggi dell’economia, per le quali lo spettacolo è il mezzo tramite il quale il mercato si serve per la conquista del mondo. L’Hitler che vediamo è infatti quello di Maurizio Cattelan, nuovo artista-manager attraverso cui si esprimono i desideri di successo (unico modo di poter affermare la propria esistenza) e l’ossessione della morte, vista come sola possibilità di liberazione. Il tutto dentro la consapevolezza di un mondo assurdo, perché di fronte al mercato tutto diventa uguale, l’unica legge è quella della capacità di destare attenzione e le vecchie idee di valore, morale ecc. fungono come richiamo melanconico anche quando vengono falsamente contestate: non si contesta qualcuno morto o che è lì lì per lasciarci. Nello spettacolo aleggia la malinconia verso un mondo che sembra scomparso, ma dal quale non ci si può distaccare, perché non ce n’è uno nuovo. A questo punto resta solo il gioco, nel doppio significato che il termine assume in inglese. Play: come giocare e recitare, in un’umanità dove l’onnipresenza e la perversione della sciarada sconfinano nella perdita del reale. La conseguenza di questo risultato è l’incapacità stessa dell’attore di sapere quale ruolo recitare, non sapendo a quale realtà e a quale pubblico ci si rivolge, affossandosi nell’astrazione. Il vecchio Potere, nella sua volontà ordinatrice, sembra essere sovrastato da un altro potere che lavorando attraverso differenti modalità caotiche produce nuove forme di oppressione, giocate soprattutto sulla capacità di gestire la molteplicità tramite la sua banalizzazione. È a questo punto che l’attesa messianica di un atto o di un gesto qualsiasi si esaudisce, non tramite la trascendenza ma attraverso l’imbroglio delle complessità tecnologiche. Sulla sala si avventa il buio. Hitler, sceso dal suo piedistallo, si “materializza” in 3-D in una porta-cornice. Hitler si anima e si rivolge direttamente a noi, anzi a te singolo spettatore, e cerca di mettere in scena una lezione sulla conoscenza dei sentimenti, tentando di definirli nella loro contraddittorietà. L’uomo/attore esce, ma solamente attraverso le modalità binarie dello spettacolo/pubblicità, cercando in maniera paradossale e forse idiota di proporre “umanità” dall’interno della semplificazione operata dai media sulla realtà. In ultima istanza si rivolge verso la bellezza/grazia nella forma dell’immagine, lottando così contro la definizione di Debord secondo cui “Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”. Tra utopia, umanità, menzogna e idiozia verso la coscienza e verità nell’epoca della riproducibilità.

       
       

Torna ad inizio pagina

  3D / Emerald City
      Tommaso Isabella, Nero su Bianco, nr. 4, Santarcangelo, 15 luglio 2008. Redazione a cura di Altre Velocità / Suole di vento
       
     

La risposta di Oz è il suo trucco definitivo, un messaggio diretto e universale, fondato sul codice corporeo della mimicry: se le parole affondavano nel caos del corpo, l’artista inverte il flusso e trasmette la sua parola “salvifica” attraverso gesti elementari. Ma per funzionare, il suo messaggio  deve essere inserito in un dispositivo più sottile: la macchina stereoscopica in cui un corpo fantasmatico riceve un’effimera sostanza grazie a uno sfasamento della percezione, una schizofernia dello sguardo che si riflette e produce la corporeità monolitica e impalpabile del potere. Lo stereoscopio è storicamente il primo dispositivo ottico in cui il piacere scopico coincide con una disciplina dello sguardo: per creare un’impressione di realtà, per esaudire i nostri desideri, esso gioca sui lapsus della visione e ci mostra la “consistenza” del nostro errore di prospettiva. Invece di nuovi organi di conoscenza, il mago ci fornisce una protesi per connetterci alla sua macchina e sognare il suo stesso sogno. Nella sua esuberante proiezione, però, egli svela anche la chiave per decifrare le dicotomie su cui si regge il suo regno paranoico; chiudendo alternativamente gli occhi, scopriamo che la sua immagine non è che la sovrapposizione di due incongruenze: il volto umano e quello osceno del potere sono inscindibili e complementari. Finché non ne siamo consapevoli il potere sfrutta questa doppiezza, ci costringe a vagare incessantemente da una polarizzazione all’altra: ma è proprio nell’intervallo che la sua immagine denuncia la propria natura schizofrenica e si apre la possibilità di scardinare la dittatura di smeraldo.

       
       
Torna ad inizio pagina   Confessioni / Emerald
     

Francesca Giuliani, Nero su Bianco, nr. 4, Santarcangelo, 15 luglio 2008. Redazione a cura di Altre Velocità / Suole di vento

       
     

I testi delle confessioni di Emerald City, fatte da attori, interpreti e “specialisti degli organi”, sono strutturati su tre livelli differenti di racconto: un evento biografico, un monologo letterario tratto dal Mago di Oz e un fatto di cronaca scelto individualmente. Tutti gli elementi son stati poi drammaturgicamente contaminati in un’intervista di carattere biografico che Chiara Lagani ha proposto a ogni espositore, che poteva rispondere con uno dei tre materiali consegnati. Strutturate così le richieste delle voci, rappresentanti dell’umanità, Marco Cavalcoli ha costruito il linguaggio del suo Oz, il mago ciarlatano. Quest’ultimo risponde al genere umano ideando una confessione composta in una lingua mimetica universale. Questa lingua non verbale è formalizzata attraverso il susseguirsi sul viso di Oz di cinque differenti maschere facciali (neutro, stupore, paura, gioia e tristezza) che sono il riflesso delle voci umane che avvolgono la scena. La confessione potrebbe essere intesa nell’accezione cristiana del termine e quindi legata all’espiazione di una colpa. In senso giuridico, invece, come un racconto-testimonianza necessario a smascherare il colpevole allorché gli occhi dei giudici-spettatori lo interrogano sulla verità dell’accusa che è stata intentata contro quella figurina di Hitler, imbalsamata nella sua forma cattelaniana. Sembrerebbe a un primo momento di poter ricollegare la prima accezione alla confessione mimico-facciale e la seconda alla babele di voci che escono dal corpo dell’accusato, come ossessive protuberanze dello stesso uomo, immobile davanti al rettangolo bianco della Storia dal quale è fuoriuscito. Le tante voci si trasformano subito in richieste, ma sono rivolte all’omino, o ai testimoni-spettatori? Forse il cervello serve per capire le storie, il fegato per avere il coraggio di ascoltare alcuni di questi terribili racconti, e il cuore per accogliere e mantenere vive e potenzialmente trasmissibili quelle suppliche sconsolate.

       
       

Torna ad inizio pagina   Mimicry / Emerald
      Maurizio Mei, Nero su Bianco, nr. 4, Santarcangelo, 15 luglio 2008. Redazione a cura di Altre Velocità / Suole di vento
       
     

Il volto è una regione. E ha una sua geografia: le emozioni, le sensazioni, il senso trovano sulla sua superficie il luogo dove esprimersi. La parola è spenta: è caduto il suo fallocentrismo. Parla il volto; ed è più eloquente. Questo alfabeto muscolare è più forte, più alacre e comunicativo. Si può classificare in zone dove il senso troverà espressione. Il significante si può celare nell’arco del sopracciglio, nelle pieghe della bocca... La mimycry designa da una parte il mascheramento, dall’altra sottolinea la natura organica del manifestarsi di tale impulso. Il volto è una lingua, connotativa. Conserva della lingua parlata, però, la stessa capacità di mentire e modellare e istruire. Faccia a faccia apprendiamo, imitiamo, possiamo “negare, alterare o abbandonare la propria identità per fingerne un’altra”. Il mago-dittatore-attore succhia, ascolta, è straziato da richieste, confessioni, voci. Entrati nel suo mondo, però, dobbiamo tradurre le sue sensazioni: ma un occhio tradisce l’altro, un colore nega l’altro colore o sovrappone la percezione. Siamo a Emerald City.

       
       

Torna ad inizio pagina   La magia al potere: intervista a Chiara Lagani
      Graziano Graziani, Carta, nr. 27, 18-24 luglio 2008
       
     

L'11 luglio ha debuttato a Santarcangelo dei Teatri "Emerald City", nuova tappa sul progetto del Mago di Oz della compagnia Fanny & Alexander. Oltre ad essere uno tra i più popolari romanzi per ragazzi, il libro di Frank Baum è un vero e proprio "mito" dell'occidente moderno, e nello specifico nordamericano. La compagnia di Ravenna ha lavorato sulla storia di Dorothy, utilizzando "Il meraviglioso mondo di Oz" come una chiave di lettura multipla, da cui far scaturire una ramificazione di riflessioni. Una di queste concerne il potere, che nel mondo inventato da Baum si manifesta sia nel modo classico delle fiabe - la magia delle streghe buone e delle streghe cattive - e sia nel modo più moderno, e umanissimo, del Mago di Oz, che altri non è se non un uomo mortale che sa manipolare la gente grazie a una raffinata arte della persuasione. Ma il percorso proposto da Fanny & Alexander, come spesso avviene nei lavori della compagnia, si interroga anche e soprattutto a partire dal rapporto con il pubblico. Ne abbiamo parlato con Chiara Lagani.

il mito di Oz riprende un concetto di fondo che potremmo sintetizzare in questo modo: il potere è il grande illusionista.

E' uno dei punti nodali di questo mito, al quale sei costretto ad accostarti in modo poliedrico, perché la questione non è affatto semplice. La prima equazione è ovviamente quella tra l'arte e il potere. Tra la concezione dell'artista demiurgo e mistificatore, creatore di illusioni, e il potere che si esercita ad esempio sull'auditorio, o anche sulla stessa opera d'arte, che è emanazione dell'artista. Dall'altro lato, c'è la questione attualissima del rapporto arte-potere oggi: è possibile parlare di non compromissione con il potere da parte di qualcuno - l'artista - che è costretto a stare di continuo in una dimensione pubblica, e che quindi non può prescindere da determinate forme di compromesso, alto o basso che sia?
L'altra domanda che mi sto ponendo - attorno a cui ruota il lavoro di "Emerald City" - è il potere della fascinazione dell'opera, il suo "incantesimo" su chi guarda. In realtà è una questione che continuiamo a porci ossessivamente dal progetto "Ada" in poi, che ruota attorno al concetto di spettatore-opera, o spettatore-artista. Questo, nel mito di Oz, è un punto di fondo, basta pensare all'equazione mago-artista, che è la meta del viaggio intrapreso dai protagonisti. Lo Spaventapasseri, il Leone e l'Uomo di Latta - ovvero cervello, cuore e coraggio - rappresentano un po' l'umanità intera, e sono in viaggio verso questa città incantata. Dal mio punto di vista, essi rappresentano il pubblico che viene con la sua richiesta vitale, e attende una risposta da te.
Declinare questa domanda così corposa e allo stesso tempo evanescente è difficile. Evanescente come è lo stesso Oz, che nel libro è detto "l'imprendibile". Quando Dorothy e gli altri tre personaggi vengono ammessi a un colloquio con lui, devono entrare uno per volta, come si trattasse di un rapporto mistico, o di un confessionale. Entrando, ognuno vede una cosa diversa: una bella donna, una palla di fuoco, una bestia feroce. Come se il potere fosse un punto di rottura oltre il quale quella cosa non è più nemmeno rappresentabile.

Nel progetto inserite la figura di Hitler, che è fortemente connotata.

Pensa ad un'operazione come quella di Chaplin ne "Il grande dittatore". All'epoca si trattava di un'icona ancora vivente - mentre noi abbiamo il vantaggio della storicizzazione. In quel caso, pur trattandosi di un'icona disumana, l'artista è riuscito a collocarci dentro la propria carica problematica, trascendendo il problema. La potenza de "Il grande dittatore" è tutta nelle scene del discorso finale, che è eticamente agli antipodi rispetto al nazismo, eppure viene pronunciato proprio da quella figura. E' un contrasto fortissimo.
In "Him", opera d'arte di Maurizio Cattelan, ad esempio, la figura di Hitler non si riconosce subito, perché è di spalle, inginocchiato in fondo ad un'ampia stanza. Immediatamente, ispira pietà e compassione. Quando ti avvicini e riconosci Hitler il cortocircuito è grande, eppure la prima cosa che ti viene da fare è di mettergli una mano sulla spalla... Poi immediatamente ti chiedi cosa stai facendo. Questo accade anche nel mito di Oz. Quando i personaggi vanno dal mago per chiedere cuore, cervello e coraggio, ottengono qualcosa di molto diverso: il mago li intrappola con le sue parole, convincendoli che il cervello, come il cuore e il coraggio, basta dire di averli e di fatto li possiedi.
Nel momento in cui lui gli conferisce verbalmente i poteri, loro si convincono di averli. E' l'arte della persuasione. Lui è certamente mostruoso nel fare un'operazione simile, ma i tre personaggi, accettandola, sono altrettanto mostruosi. Perché alla base del potere c'è sempre un sodalizio, perché la gestione del potere avviene da due lati. Storicamente, c'è sempre chi esercita il potere e chi fa in modo che questo potere venga esercitato.
La domanda che poniamo allo spettatore è, in questo caso, fortissima. In "Emerald City" è citato il monologo finale del Mago di Oz, che trovo illuminante e agghiacciante. Lui dice sostanzialmente: mi trovavo qui e mi annoiavo, così ho deciso di inventare questo mondo; l'ho chiamato Emerald City perché attorno la campagna era verde, e perché il nome fosse più calzante ho messo sugli occhi della gente degli occhiali con le lenti verdi; del resto, il verde dà felicità, voi non volete essere felici?
E' un po' la storia tremenda di tutte le utopie.

Avete legato "Emerald City" alla metropoli, citando una città reale, Singapore. La metropoli è il luogo in cui l'equazione tra potere e illusione si sprigiona in tutta la sua forza.

Tutte le utopie sintetizzano le loro finalità in un'idea di città che è la città ideale. Così Emerald City è la città ideale del mondo di Oz. Non riuscirei mai ad identificarla con una città esistente, tranne forse con Singapore. Perché Singapore è l'unico luogo al mondo che ho visitato che quasi coincide con l'idea di nonluogo espressa da Marc Augé. Perché c'è una promessa di felicità che sfiora la follia. Lì tocchi gli estremi di condizioni opposte: c'è una ricchezza opulenta e una povertà assurda. E' una città fatta di luoghi "ricostruiti" da modelli che esistono altrove, tutto sembra finto o progettato a tavolino, persino l'odore.
Tutto questo è molto affascinante. Sembra di essere in una bolla, fuori dalla realtà, dal mondo e dalla storia. Ma, al di là di queste riflessioni, il discorso su Emerald City è più di carattere filosofico, quasi platonico, di città utopica che è allo stesso tempo il paradiso e l'inferno. Perché l'utopia è paradisiaca fin tanto che non si invera, quando si realizza diventa un orrore. Ma ci sono anche gli urti e le collisioni sociali. Noi poniamo sempre l'accento sulla collettività, che è la comunità che vive negli aggregati umani, quindi nelle città.

       
       

Torna ad inizio pagina   "Kansas" e "Emerald City"
      Maria Dolores Pesce, www.dramma.it, 19 luglio 2008
       
     

Il gruppo ravennate presenta a Santarcangelo due tappe del suo OZ-Project, viaggio nel mondo letterario di Dorothy e del mago di Oz. Il progetto si va sviluppando dal 2007 e si prevede potrà concludersi nel 2010 al Romaeuropa Festival. E’ una ricerca di senso oltre e al di là del linguaggio, quella che Fanny & Alexander tentano con questa loro peripezia, che però non annichilisce il linguaggio verbale ma lo trasfigura in segno morfologico o in movimento scenico. Kansas, ovviamente, è il luogo da cui parte il periplo del mondo come ci appare ed in questa drammaturgia Chiara Lagani e Luigi de Angelis mettono in scena le possibilità, le innumerevoli possibilità di fuga consentite dalla trasfigurazione onirica della propria personalità. È Dorohoty la protagonista, anzi cinque diverse Dorothy accomunate dall’attesa di una trasformazione, dall’attesa dell’uragano che le farà evadere. Lo specchiarsi nella propria identità, simbolicamente rappresentata dai quadri alla parete di un immaginario museo, è il primo passo per andare, come Alice, oltre lo specchio di ciò che si appare, in direzione di ciò che si è. La rotazione improvvisa e irresistibile dei dipinti, come un uragano appunto, innesta il movimento lontano dal Kansas verso Oz e oltre l’Arcobaleno. Con Emerald City, in scena un bravissimo e stoico Marco Cavalcoli, invece il gruppo indaga le apparenze e la duplicità di senso proprie di ogni linguaggio verbale. Oz è raffigurato con le fattezze e i caratteristici baffetti di un giovane dittatore ben conosciuto, “Him” in scena, impegnato a sedimentare in linguaggio fisiognomico il senso ultimo delle parole che dal mondo si accalcano intorno alla sua figura inginocchiata. Come scrivono gli autori “è una forma di esercizio sull’impotenza delle parole di fronte alla complessità del pensiero”. Tutto è così tradotto nella materialità della espressione umana, che alla fine si rivelerà però, anch’essa, incerta e duplice come i colori delle lenti degli occhiali 3D che siamo invitati ad indossare. Un’altra drammaturgia in transito, come quella ispirata alla Ada di Nabokov; che costruisce il suo significato nella lontananza della prospettiva, quasi a confessare l’attuale difficoltà del teatro a “significare” e comunicare nel qui e ora della scena.

       
       

Torna ad inizio pagina   Benvenuti a Emerald City
      Carlotta Tringali, Il Tamburo di Kattrin, www.iltamburodikattrin.com, 7 febbraio 2010
       
     

La duplicità ha sempre giocato un ruolo molto importante nel lavoro teatrale della compagnia ravennate Fanny & Alexander. Una coppia, la drammaturga Chiara Lagani e il regista-scenografo Luigi de Angelis, che firma insieme l'ideazione di ogni percorso progettuale lungo e complesso: un viaggio dentro un'opera letterale che viene totalmente sviscerata, analizzata e amplificata in tutte le sue infinite possibilità.

Ricomponendo e scomponendo attraverso diverse tappe Il meraviglioso mago di Oz – storia fantastica scritta da Frank Baum all'inizio del secolo scorso e resa ancor più celebre con il film di Victor Fleming – Fanny & Alexander offre la possibilità al pubblico veneziano di giungere a Emerald City, la città utopica abitata da colui che dà il nome al romanzo. La duplicità si presenta sin da subito: gli spettatori non sono semplici osservatori di ciò che succede, ma artefici stessi – forse inconsapevoli – della situazione che si viene a creare; seduti sul palco sono loro stessi un'opera, loro stessi gli artisti e soprattutto diventano gli abitanti della ingannevole città di smeraldo. Ingannevole perché immediatamente il gioco dei rimandi si complica: il mago di Oz, a cui nel romanzo i personaggi rivolgono i loro desideri, trova la sua personificazione in una delle immagini simbolo del potere, niente di meno che Hitler. Posto davanti a uno sfondo spaziale che richiama i quadri/vuoti materici e illusionistici di James Turrell, la geniale coppia romagnola alza la posta in gioco decidendo di mostrare il dittatore, di fronte agli spettatori, in ginocchio: l'interprete Marco Cavalcoli ricorda volutamente l'installazione Him dell'artista Maurizio Cattelan.

Immobile e bonario, Hitler rimane in ascolto, diventando una specie di confessore: un tappeto sonoro fatto di voci, preghiere, emozioni e racconti privati in diverse lingue lo avvolge, mentre gli spettatori possono sentire la stessa “sinfonia” – come la definisce Chiara Lagani – tramite delle cuffie che rendono le confessioni ancora più intime. L'attore-dittatore assorbe ciò che gli viene detto riflettendo tutte le emozioni umane attraverso una mimica facciale più comprensibile del linguaggio verbale composto da suoni stranieri, suoni che girano attorno ai concetti di “cuore, cervello e coraggio”, tre virtù dell'uomo. Questa nenia di desideri umani crea Oz, quel grande vuoto a cui i personaggi del romanzo danno una forma differente, secondo il proprio volere. E infatti se nella prima parte il dittatore è più uomo e meno mostro, nella seconda parte di Emerald City l'attore Cavalcoli scompare, lasciando il posto a una proiezione 3D: invitando a mettere degli occhialini verdi – occhiali per la visione in 3D forniti al pubblico all'ingresso del teatro – l'immagine silenziosa di Hitler e alcune scritte proiettate alla parete spingono gli abitanti della sua città color smeraldo a seguirlo. E gli abitanti-spettatori – vinti dalla tecnologia accattivante e dalle fascinose possibilità del video – seguono, come fossero sotto incantesimo, gli ordini di Hitler in tutto e per tutto. Potrebbero riecheggiare qui le parole della famosa canzone The sound of silence di un'altra coppia, Simon & Garfunkel: “e la gente si inchinava e pregava/ al Dio neon che aveva creato. E l'insegna proiettò il suo avvertimento/ tra le parole che stava delineando. E l'insegna disse: 'le parole dei profeti/sono scritte sui muri delle metropolitane/e sui muri delle case popolari'.”

Fanny & Alexander mostrano il potere dell'arte della persuasione, la pericolosità di immagini e oggetti che attraggono e mandano a casa lo spettatore solo a posteriori conscio di aver partecipato, anche solo per gioco, alla follia di Hitler. Si rabbrividisce al solo pensiero: essere omologato e seguire un dittatore nei suoi folli capricci non è né così improbabile o impensabile né poi così lontano dalla nostra quotidianità come si crede.

       
       

Torna ad inizio pagina   Emerald City + HIM
      Renato Palazzi, www.delteatro.it, 28 aprile 2010
       
     

Che l'itinerario di ricerca di Fanny & Alexander dentro i testi affrontati - un itinerario fatto di "studi" successivi, di schegge, di punti di vista diversi e a volte vertiginosamente opposti su una stessa opera - sia soprattutto uno straordinario esercizio di scomposizione e ricomposizione linguistica era già evidente dai tempi del ciclo su Ada di Nabokov: ma è interessante vedere come alla dimensione per così dire orizzontale di questo metodo di lavoro - per cui ogni "studio" è un'aggregazione dei suoi elementi formali - si possa aggiungere una dimensione verticale, che accostando due "studi" ne ricava ulteriori prospettive di lettura.

Rappresentando insieme, ad esempio, questo doppio approccio al Mago di Oz di L. Frank Baum, Emerald City e HIM, il gruppo punta simultaneamente su un fattore di continuità e uno di folgorante discontinuità, che si integrano e interagiscono tra loro: la continuità è suggerita dalla presenza di quell'Hitler "bambino" che - mutuato da una provocatoria installazione di Maurizio Cattelan - incombe come un onnipresente fantasma dell'inconscio sull'intero percorso nella celebre fiaba (portata sullo schermo, va ricordato, nel '39): è un mago-imbonitore, un emblema dell'arte come inganno, tenero e inquietante, ambiguo, buffo, minaccioso.

La discontinuità totale, assoluta risiede invece nel simmetrico rovesciamento delle funzioni che questa figura assume nelle due performance. Nella prima, immobile in ginocchio, si limita alla sfera ossessiva dell'ascolto: è il destinatario, l'inerme terminale di una miriade di richieste, di suppliche, di confessioni in varie lingue che lo spettatore sente in cuffia e che riguardano violenze di guerra, strani disturbi del corpo o della psiche ma soprattutto - come nel successivo South-North - spiazzanti contrapposizioni tra cuore e cervello, alterne invocazioni di disattivare ora l'uno ora l'altro, da lui accolte con muti sorrisi, pianti, sguardi esasperati.

Nella seconda, alla passiva ricezione si sostituisce un irrefrenabile flusso verbale: mentre alle sue spalle scorrono le immagini del film di Victor Fleming, dall'inizio alla fine, con incredibile estro mimetico l'attore Marco Cavalcoli lo "doppia" alla perfezione, intona le musiche, canta le canzoni, dà voce - in inglese - a tutti i personaggi, mutando inflessioni, toni, accenti. Un'insensata, maniacale prova di talento, ma più ancora un sottile gioco concettuale basato sui costanti scarti tra parola e silenzio, tra pensiero e sentimento, tra cinema e teatro, che sorprendono senza tregua lo spettatore senza mai condurlo davvero da nessuna parte.

C'è qualcosa di frustrante, e insieme di esemplare, in questo andamento aperto, fluido, spezzettato. L'aspetto più significativo di procedure del genere sta nel fatto che Fanny & Alexander, per certi versi, vi celebra l'affermarsi di una sua particolare categoria di pensiero frammentario, che si espande, avanza a tappe, per concatenazioni e illuminazioni improvvise, ma non intende arrivare a dei risultati definitivi. E frammentaria, forse, diventa anche la percezione dello spettatore, che a teatro tende così ad andare per cogliere suggestioni sparse, non per assistere a uno spettacolo compiuto, dotato in sé di un autonomo significato.

       
       

Torna ad inizio pagina   La realtà, l'illusione, l'inganno
      Francesca Brancaccio, www.persinsala.it, 4 maggio 2010
       
     

Un solo attore, due spettacoli: al Teatro i Fanny & Alexander danno tridimensionalità allla topografia della Città di Smeraldo, lasciando la parola al suo creatore, il Mago di Oz. Stupore ed emozione per l’ultima, magnifica creatura ispirata alla fiaba di Frank Baum.

Basterebbero poche righe per descrivere la serata, quello che si è visto, quello che si è sentito. Quello che succede sul palco nei due spettacoli che la compagnia Fanny & Alexander presenta al Teatro i potrebbe essere presto detto, le azioni, i contenuti, le idee, le innovazioni potrebbero essere ricordate e raccontate senza fatica e senza spreco di tempo. Ma per parlare delle emozioni che ogni spettatore ha provato, delle sensazioni particolari, dei significati e e dei pensieri, non si trovano le parole.

Il punto di partenza per entrambe le performance è la famosa fiaba di Frank Baum, Il Meraviglioso Mago di Oz, testo che la compagnia ha scelto come perno e fonte d’ispirazione negli ultimi anni, producendo così una decina di spettacoli aventi tutti Oz come filo conduttore. Ogni volta è un tema diverso a essere messo in scena, un diverso punto di vista o una diversa componente. In questo caso, è il centro stesso – sia topografico che tematico: la Città di Smeraldo e il suo fondatore, il Mago del titolo.

Tutti conoscono almeno i personaggi della storia. L’ingenua Dorothy, lo Spaventapasseri senza cervello, l’Uomo di Latta senza cuore e il Leone senza coraggio. Tutti sanno che gli eroi vanno dal Mago per chiedergli in dono ciò che ad ognuno di loro manca, che dopo estenuanti prove essi ottengono quello che volevano in formato placebo, e che questo basta per farli sentire forti, completi e felici; che alla fine della storia Dorothy riesce a tornare a casa e che, come in ogni libro per bambini, tutto finisce bene.

de Angelis immagina che tutta l’umanità si rechi dal Mago a chiedergli un dono; e lo spettatore sente (in cuffia, e quindi individualmente, in solitudine) le preghiere di questa moltitudine sofferente. C’è chi vorrebbe non sentire più il suo cuore, chi si accontenterebbe del coraggio di dire no, chi spera «in una perdita di controllo, una perdita di lucidità».

Ognuno ha un suo tono di voce, una sua lingua, una sua storia, un suo dramma. Il pubblico ascolta impotente il dolore del mondo, proprio come un Mago impostore può aver ascoltato le richieste di Dorothy e dei suoi compagni, ascolta le parole del desiderio ancestrale di trovare un mago, umano o divino, che si faccia portatore di tutti i problemi e le croci, un capro espiatorio con la bacchetta magica.

E mentre ascolta, mentre le esperienze di sofferenza si sommano e si accumulano nelle orecchie e nell’aria, sul palco, con gli occhi puntati verso la sala buia, un fragile Hitler inginocchiato mostra instancabilmente le reazioni che i racconti provocano sul suo viso. Attraverso la mimicry (o lingua non-verbale della mimica facciale) il suo volto diventa «riflesso condizionato di tutte le voci umane, miste eppur discrete», come si legge nel programma di sala.

Eppure, purtroppo, Emerald City, la Città di Smeraldo, la meta del pellegrinaggio, il santuario a cui si arriva sperando di esere assolti non è nient’altro che un miraggio, o peggio, un’impostura, un’illusione che il Mago stesso ha creato. Così, per entrare nella città, dobbiamo indossare degli occhiali 3D, proprio come nel libro di Baum gli occhi dei personaggi sono costretti a guardare attraverso delle lenti verde smeraldo.

Niente è come sembra, quindi; ma se si guarda con attenzione, si può scoprire con angoscia che dietro alla purezza, alla gioia, all’amore fraterno e alla serenità si nascondono i loro contrari. Ed è proprio per non provare questa angoscia, sembra voler dire il regista, per non veder cadere i bei muri dell’illusione, che a volte non si tolgono gli occhiali, non si aprono gli occhi.

Secondo spettacolo, seconda finzione. Per rappresentare il Mago, cioè colui che della finzione ha fatto la sua reggia e la sua stessa identità, Fanny & Alexander sceglie di utilizzare il film che ancora più del libro ha consacrato il Mago di Oz come storia nazionale americana: quello di Victor Fleming del 1939. Già finto proprio per sua natura, in quanto film; finto una seconda volta perchè a colori, in Technicolor (ai tempi in cui è stato girato, il colore identificava gli eventi fantastici, irreali), e una terza perchè i suoi personaggi invece che parlare si esprimono cantando, The Wizard of Oz (questo il titolo originale del film ) diventa emblema della finzione perchè associato al doppiaggio in diretta di un unico attore, lo stesso del primo spettacolo negli stessi panni, quelli di Hitler, quelli del Mago. Come un direttore d’orchestra, Marco Cavalcoli dirige ed interpreta le voci di tutti i personaggi e addirittura la colonna sonora, con una performance di incredibile bravura e fatica – l’attore, per tutto il tempo in cui il film scorre alle sue spalle, recita, in inglese, muovendo le braccia, in ginocchio.

Si prova ammirazione per la pellicola e per l’attore, ma soprattutto si ride, e poi si esce sorridenti, assuefatti dall’inganno.

Forse, tutto è proprio come sembra. Se solo aprissimo gli occhi.

       
       

Torna ad inizio pagina   Fanny & Alexander scuotono le coscienze dell'uomo
      Roberto Rinaldi, Teatro.Org, 31 luglio 2010
       
     

Un girone dantesco dove trovano posto tutte le “voci di dentro” parafrasando la celebre commedia di Eduardo De Filippo, solo che qui è un mondo sotterraneo di voci che paiono emergere da un caos apocalittico, in cui si è costretti a fare i conti con la storia tragica dell'umanità. La follia cieca di un piccolo uomo esaltato dalla sua delirante onnipotenza. È all'udito e alla vista che viene chiesta una sopportazione al limite di ogni resistenza umana. L'ascolto è obbligatorio e non discrezionale se si vuole assistere alla messa in scena dove si viene muniti di cuffie auricolari e di un paio di occhiali con lenti colorate speciali, riservate solo al finale, quando, finalmente cessa il logorante, snervante, inquietante flusso di parole in molte lingue diverse che sommergono il pubblico e lui, il piccolo dittatore inginocchiato sul piedistallo. Hitler. Sta al centro della scena vuota quasi a simboleggiare un altare pagano disposto per la venerazione di una divinità del Male. Ancora una volta il mago di Oz appare nelle sembianze di un corpo umano che incarna il volto del dittatore nazista, il quale a sua volta è la mutazione da un'opera d'arte (il riferimento è all'opera di Maurizio Cattelan), l'uno contenuto dentro l'altro, come un gioco cinese ad incastri. Arrivano le voci dell'intera umanità mescolate, confuse, sovrapposte, caos linguistico e parossistico. Raccontano con tono dolente, quasi atono, supplicano, Sono spezzoni di narrazioni che raccontano violenze, guerre, soprusi, instabilità psichiche, mentre il corpo immobile – attore – simbolo, volge il suo sguardo verso di noi. Sguardo allucinato e mutevole, in grado di creare infinitesimali variazioni fisiognomiche. Un volto senza anima, senza parola, senza anima. Triste e demoniaco. Vittima di lui stesso e di quel logorante cicaleccio di voci imploranti. Un gioco perverso in cui si viene ipnotizzati, catturati. Ma non è la stessa cosa accaduta ai popoli soggiogati, manipolati, plagiati dal potere e dal suo agire terrificante? Voci che confessano, spiegano, raccontano vissuti biografici, a cui si mescola un monologo tratto dal “Mago di Oz, e un evento di cronaca selezionato individualmente. Tre livelli di narrazione che si incastrano tra loro e creano una miscela straniante per la mente razionale che deve soccombere e lasciarsi guidar senza opporre resistenza. Al termine la vista protetta dagli occhiali. Buio in sala. Hitler riappare in formato 3-D e impone lo sguardo su di lui, l'attenzione ad una sua esibizione sfacciata. Un obbligo materiale che si trasforma in una costrizione morale. Non c'è scelta. Straordinaria prova d'attore fuori dai consueti canoni di recitazione per Marco Cavalcoli, capace di “far parlare” il viso, mutare espressione, rendere visibile e decifrabile tutto lo scibile umano. Grande prova collettiva di un gruppo teatrale nella sua ricerca costante di significati e codici di lettura. La psiche umana e la coscienza dell'uomo come fonte di creazione inesauribile. Tra gli spettacoli più interessanti e suggestivi visti al Festival.
WEST
Sola in scena, in preda a continui sussulti nevrotici, una gestualità nevrotica, ripetuta , stereotipata. Sembra in preda ad una forma di allucinazione che la costringe a ripetere meccanicamente parola, gesto e suono con un fare tipicamente schizofrenico. O sottoposta ad un esperimento ipnotico. Ed è questo che fa Doroty, la protagonista. Una donna per certi versi anche commovente nella sua genuina volontà di lasciarsi guidare in un diabolico e perverso testi di persuasione occulta. Cosa succede in scena? Sola e seduta ad un tavolino di legno viene comandata a distanza da due voci che arrivano negli auricolari. Due differenti generi di comandi. Uno legato ad una serie di cliché gestuali, il secondo a una serie di frame testuali che diversamente combinati, danno vita ad un testo. Sono le spiegazioni del minuscolo foglietto consegnato all'atto di entrare in una specie di ring metafisico dove sul pavimento è disegnato con nastro bianco adesivo un quadrato. Una forma geometrica per delimitare lo spazio e il movimento a disposizione della donna. Un raffica di comandi e impulsi da far venire una nevrosi ossessiva a chiunque. Una ripetizione assordante per condizionare la mente umana. Per un pretesto banale. La psiche viene stravolta e la propria persona subisce un'alienazione pericolosa. La tensione nell'aria è palpabile e può essere toccata con mano. Parole che si incrociano, si confondono, subisco accelerazioni repentine, inversioni di senso. Si pronuncia una domanda alla quale non riesce a darsi una risposta. Una comunicazione che somiglia tanto al nostro mondo dove tutto diventa eccessivo e logorroico. Iincomunicabile. Una prova di recitazione straordinaria per un'attrice capace di immedesimarsi talmente da destabilizzare le coscienze di chi l'ascolta. Una bravissima ed intensa Francesca Mazza stupisce per la perfetta adesione alle intenzioni registiche -drammaturgiche di Chiara Lagani e Luigi De Angelis, fondatori della Compagnia ravvenate. Un felice sodalizio capace di portare sulla scena la nostra realtà quotidiana, soggetta a continue manipolazioni da cui facciamo fatica a uscirne. Lunghi e vibranti applausi hanno sancito il successo finale e un ringraziamento speciale alla brava attrice comprensibilmente provata quanto emozionata.

       
       

Torna ad inizio pagina   20 anni di Fanny & Alexander. Mitologie a confronto nella Emerald City
      Giulia Taddeo, Krapp's Last Post, www.klpteatro.it, 26 aprile 2012
       
     

Nel corso degli ultimi cinque anni, l’imponente progetto che Fanny & Alexander hanno costruito a partire dal romanzo “Il meraviglioso mago di Oz” (scritto nel 1900 da L. Frank Baum) non ha prodotto solo una rete ricca e affascinante di spettacoli, laboratori, esposizioni e pubblicazioni editoriali.
Inevitabilmente tutti questi percorsi creativi, arricchiti di volta in volta dall’apporto di artisti diversi e stimolanti (si pensi, ad esempio, alla collaborazione delle attrici Fiorenza Menni e Francesca Mazza, cui Klp dedica una lunga intervista oggi pomeriggio), hanno generato un vero e proprio labirinto di significati, immagini, allusioni e rimandi, in cui i concetti chiave del progetto (come “coraggio”, “attesa” o “scelta”) rimangono punti di riferimento da cui si sviluppa una vera e propria mitologia “sul” Mago di Oz (e quindi sui suoi protagonisti) che porta la firma della compagnia ravennate.

In onore del ventennale della compagnia, vari luoghi teatrali e culturali della città di Bologna hanno ospitato “Progetto Oz” (a cura di Elena di Gioia), che ha ripercorso le tappe salienti del lavoro condotto da Fannny & Alexander su “Il mago di Oz” attraverso spettacoli, mostre e incontri di approfondimento.

Tra gli spettacoli in programma, “Emerald City” ci conduce nella mitica Città di Smeraldo, la mitica dimora del Mago in cui è necessario indossare degli occhiali verdi (necessità che, ovviamente, coincide con una costrizione) per evitare di rimanere accecati.
Anche gli spettatori saranno sottoposti, per poter seguire lo spettacolo, a delle “costrizioni” percettive: come gli abitanti della città di Smeraldo, anche il pubblico, verso la fine dello spettacolo, dovrà inforcare un paio di lenti (quelle rosso/verdi degli occhialini 3d) e, sin dal principio, indosserà un paio di cuffie per poter ascoltare l’intero lavoro.

Assorbiti e, in parte, manipolati sul piano percettivo, ci troviamo di fronte sin dal principio a una figura che ormai costituisce un emblema di quella mitologia “sul” Mago di Oz prodotta da Fanny & Alexander di cui parlavamo all’inizio: si tratta dell’attore Marco Cavalcoli, inginocchiato al centro della scena su un blocco bianco marmoreo nelle vesti di “Him”, la statua di Maurizio Cattelan (raffigurante Adolf Hitler in atteggiamento remissivo e penitente) da cui prende il titolo un altro spettacolo del “ciclo” di Oz.

Come ormai sappiamo, il dittatore/attore rimanda all’ambigua figura del Mago, che ricorre al proprio potere oscillando pericolosamente fra paternalismo, indifferenza e volontà di oppressione. Alle sue spalle avanza, scorrendo quasi impercettibilmente, un’ampia parete bianca sulla quale, attorno a un foro rettangolare che incornicia la figura di Hitler/Cavalcoli (e che si impregnerà di luci colorate, in primis quella color smeraldo), campeggiano altoparlanti di diverse forme e dimensioni: è questa l’immagine della città-utopia, dove il tiranno costituisce il punto di riferimento per una massa multietnica di individui, le cui storie sono affidate a un racconto a più voci che noi, come il dittatore/mago, ascoltiamo rigorosamente in cuffia.

Lo spettacolo si costruisce tutto sulla dialettica fra il rapido susseguirsi e intrecciarsi delle immagini sonore che ascoltiamo, un vero e proprio amalgama di suoni e voci in cui si mescolano idiomi, storie ed esigenze diverse, e la lentezza del movimento attraverso cui si dipingono diverse espressioni sul volto del dittatore sempre fermo e silente, come se fossero una sorta di reazione schizofrenica e a tratti irriverente alle richieste che gli vengono rivolte.
Se, da un lato, coloro che hanno varcato la soglia di questa teatralizzata Città di Smeraldo portano con sé fragilità, speranze e desideri che li accomunano ai protagonisti della fiaba di Baum (il desiderio di un cuore e di un cervello “nuovi”, così come il bisogno di autentico coraggio), dall’altro il dittatore/mago risponde ad essi con una serie di reazioni quanto mai stereotipate e impenetrabili. Sarà proprio il finale a chiarire il carattere di estraneità del mago rispetto ai suoi supplichevoli avventori, quando, grazie agli occhialini 3d, saremo costretti a seguire l’immagine proiettata del dittatore (il foro rettangolare della parete viene chiuso ad hoc da uno schermo) che ci fa vedere una sorta di piccolo prontuario di “pose” o “espressioni”, in cui a ogni atteggiamento facciale mostrato segue una didascalia esplicativa.
Quasi a dire che l’atto di ascolto del mago è stato un trucco, una mistificazione, un’illusione verde smeraldo che non regala nulla ma ti porta via qualsiasi cosa.

Come il tiranno della città di Smeraldo, anche lo spettacolo agguanta il pubblico dettandogli le regole da seguire e affidando alla manipolazione percettiva un ruolo centrale, sia sul piano dell’individuazione di un possibile “significato” sia, soprattutto, su quello della costruzione di un immaginario che prenda origine dal momento dello spettacolo.
E’ così che, mentre cuffie e occhialini ci annebbiano i sensi attraverso il gioco mistificatore di un venefico stregone in divisa grigio/verde, l’eco delle parole che abbiamo ascoltato, vibranti di paura, inquietudine e timida speranza, si deposita dentro di noi e successivamente riaffiora, sorprende, rimane.

       
       
       
     

Emerald City home

Spettacoli

Discorso Grigio | T.E.L. | WEST | NORTH | SOUTH | EAST | KANSAS | K.313 | AMORE (2 atti) | HIM | Dorothy. Sconcerto per Oz | Heliogabalus | Vaniada | Lucinda Museum | Aqua Marina | Ardis II | Ardis I | Alice vietato > 18 anni | Requiem per spazi monumentali | Romeo e Giulietta - et ultra | Ponti in core

Approfondimenti

Interviste

       
      Torna ad inizio pagina

Torna a Rassegna Stampa

Torna all'indice

Richiesta informazioni