Rassegna stampa - Spettacoli
       
      EAST
       
     

Tommaso Pasquini, "Fanny & Alexander", ovvero quando il teatro diventa l'antitivù

Katia Malatesta, Vortice Lagani - de Angelis: "East" fa centro a Drodesera

Alessandro Fogli, Socìetas, così l'artista diventa a sua volta creazione

Nicola Arrigoni, Padri e figli

Claudia Mannini, East. Fanny & Alexander nel destino dell'Uomo di latta

       
       

    "Fanny & Alexander", ovvero quando il teatro diventa l'antitivù
     

Tommaso Pasquini, Trentino, 28 luglio 2008

     

 

     

Scordatevi i linguaggi di un teatro che per andare incontro al grande pubblico fa suoi gli stilemi mediatici di web e televisione. I presupposti di una drammaturgia che accolga in sé i dettami narrativi più attuali per amplificare messaggi attualmente impercettibili.

Fanny & Alexander sono il perfetto contrario di tutto questo: non credono (non vogliono credere) nell'immagine astratta di uno spettatore acritico. In questo senso il loro teatro appare, di per sé, quasi come una precisa forma di resistenza, uno strumento di ribellione della e nella comunicazione, settore dove più si concentrano più direttamente effetti e obiettivi, limiti e contraddizioni di un intero sistema.

"Heliogabalus", lo spettacolo presentato al festival Drodesera due anni fa, è forse lo spettacolo simbolo di questa ricerca. Che continua pur se con prospettive diverse, anche in "East", andato in scena sabato sera al festival Drodesera in prima nazionale.

Capire fino in fondo "East" vuol dire inquadrarlo all'interno di quel percorso più ampio che è l'"Oz project", ambizioso progetto basato sulla storia de "Il meraviglioso Mago di Oz" di F.L. Baum, che Fanny & Alexander portano avanti dal 2007 e che proseguirà fino al 2010. Ma la sostanza dello spettacolo si apprezza anche senza conoscere gli antefatti: "E' come se il nostro mago - spiega Chiara Lagani di F&A - chiedesse ai protagonisti della fiaba di raccontare una loro storia.

Conoscere la storia di Dorothy è sicuramente meglio, visti i riferimenti alla storia del boscaiolo, al suo amore per la fanciulla, all'incantesimo della strega dell'est che lo fa a pezzi e al fabbro che, rimontandolo come uomo di latta, dimentica il cuore. Ma non è essenziale per entrare in sintonia con lo spettacolo, per capire quale linguaggio utilizzare, quale forma scegliere per raccontare una vita". Per un attimo la Sala Forgia, perfetta scena di questo spettacolo, si trasforma quindi nella scatola spirituale del protagonista, dove gli spettatori si immergono filtrando la sostanza dei ricordi, anche di quelli più violenti e atroci: ci si sente dentro una guerra quando un rumore simile a decine di eliche di elicotteri arriva da fuori per invadere in pieno la scena (effetto Apocalypse Now); e del tutto persi in balia di un nemico quando un fascio di luce intermittente invade la platea, creando l'altro straordinario effetto visivo del performer sospeso nell'aria tra un bombardamento e l'altro di luce violenta.

Poi all'improvviso tutto tace e si risolve, come nella struttura di una complessa sinfonia: estinto l'ultimo vigore di violente correnti tutto confluisce in un bacino di calma e tranquillità; vera, palpabile come il verde della natura su cui si affaccia la grande finestra, ora sì aperta, della sala. Racconto inenarrabile, storia impossibile ma anche travagliata assunzione di un nuovo sguardo, di una più completa, serena consapevolezza di sé.

       
       

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  Vortice Lagani - de Angelis: "East" fa centro a Drodesera
     

Katia Malatesta, L'Adige, 28 luglio 2008

     

 

     

A Drodesera non si va per essere rassicurati in convinzioni già masticate sul teatro e i suoi codici. Ci si aspetta piuttosto il vortice in grado di mandarli all'aria e di rinnovarne il senso. Soprattutto fin quando il programma, fin qui senza sbavature, mette in campo una prima assoluta. Ancor più quando a proporla è la bottega d'arte fondata da Chiara Lagani e Luigi de Angelis nella "felix" Ravenna del nuovo teatro italiano.

Fanny & Alexander ha aperto la seconda giornata del festival presentando un nuovo capitolo del suo monumentale progetto sul viaggio di Dorothy nella Città di smeraldo. "East" è nato in coproduzione con Centrale Fies negli spazi della Forgia riallestita con l'incombente portale in ferro di Massimo Paci. Da questa tappa trentina il progetto Oz esce arricchito di un lavoro da non perdere, che prende di petto la lingua come processo coinvolgendo il pubblico in un meccanismo enigmistico di ricostruzione.

Il mito di riferimento è quello dell'uomo di latta mutilato del cuore e dei ricordi dalla malvagia strega dell'Est. Nella geografia ibrida di Fanny & Alexander, l'East si identifica anche con l'Indocina perduta, sopraffatta dalla cultura eurocentrica allo stesso modo della Strega schiacciata dalla casa di Dorothy in balia del ciclone. Le lingue impossibili parlate ai quattro punti cardinali del mondo di Oz completano l'anatomia di un regno gravato da una ineluttabile cappa di silenzio. Il racconto allora passa per l'iconizzazione del gesto e la fisicità ossessiva del linguaggio Morse a richiamare anche il battito di quel cuore scomparso. Con la regia esatta di de Angelis, i frammenti codificati da Koen De Preter - ragazzo, tin man, ex marine? - incrociano le immagini in super8 di una danzatrice cambogiana accumulando reperti per l'ipotesi ricostruttiva. La parola - "sono solo un performer" - appare solo nel finale consegnando al pubblico una nuova asserzione della "magia" dell'attore.

Altri momenti dello stesso percorso trovano sviluppo, con strenua coerenza, negli altri due spettacoli con cui Fanny & Alexander partecipa alla ventottesima edizione del festival. Un'ultima replica di "Kansas" andrà in scena questa sera alle 22.30; la giornata di sabato, intanto, ha indagato i mascheramenti e gli inganni del Mago attraverso la straordinaria prova di Marco Cavalcoli in "HIM if the wizard is a wizard you will see...". Lunghissimi applausi hanno accolto l'impresa del piccolo attore-dittatore. Hitler bambino e in ginocchio come nella scultura di Cattelan - chiamato ad impossessarsi di una favola nel tentativo comico e inquietante di doppiare l'intero film di Fleming mutilato della sua pista audio. (...)

       
       

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  Socìetas, così l'artista diventa a sua volta creazione
     

Alessandro Fogli, Il Corriere di Romagna, 6 agosto 2008

     

 

     

Con una giornata dedicata quasi esclusivamente alla famiglia Castellucci, si è conclusa sabato 2 agosto l’edizione 2008 del festival “Drodesera” – come di consueto ospitato dagli incredibili spazi dell’ex centrale idroelettrica di Fies –, quest’anno particolarmente frequentata da compagnie e artisti romagnoli. Oltre alla Socìetas erano infatti presenti in Trentino anche il Gruppo Nanou, Sonia Brunelli, la Valdoca e i Fanny & Alexander, questi ultimi con alcune delle loro più recenti produzioni – “Him”, “Kansas” – ma soprattutto con la prima nazionale di “East”. Ultimo in senso cronologico (ma senza una collocazione temporale nella diegesi generale) dei lavori concepiti attorno al nucleo centrale dell’immane “Dorothy. Sconcerto per Oz”, East è forse il più drammaturgicamente rigoroso e quello che meglio innesca il meccanismo di affermazione e di contemporanea negazione di ogni presunta verità, ponendosi tra l’altro anche come una sorta di sotterraneo trait d’union tra il lungo e complesso progetto sul Mago di Oz e il precedente, potentissimo, Heliogabalus (ma i rimandi filologici tra i gli spettacoli dei Fanny sono sempre innumerevoli e inevitabilmente inestricabili). Quello che la compagnia di Chiara Lagani e Luigi de Angelis mette infatti in azione nella sala della Forgia è un personaggio semiumano – Tin Man, interpretato dall’attore belga Koen De Preter – al quale, oltre al cuore, manca, guarda caso, un linguaggio realmente comprensibile (si esprime tramite alfabeto morse). Come Eliogabalo, che da est veniva, Tin Man si ritrova in un est che può riconoscere solo tramite ricordi non suoi, e costretto a seguire gli ordini provenienti dalla voce del solito Him, il direttore/mago onnipresente. Il suo est è quello del regime iconoclasta di Pol Pot, delle guerre volute da occidente, di una danzatrice cambogiana di cui è innamorato – e davvero suggestiva è la proiezione sul corpo del protagonista del video in super8 con la danza di Chey Chankethya – ma tutto ciò ricostruibile tramite una morfologia di codici incerti, affatto immediati, che chiamano in causa, ancora una volta e con struggente evidenza, proprio noi, il pubblico, per responsabilizzarci di fronte al processo creativo, che non deve (e non può) dare risposte: «Sono un performer – dice inaspettatamente l’attore al termine dello spettacolo –, solo questo è il mio racconto».

Si diceva poi della famiglia Castellucci. “Kin keen king” è lo spettacolo con cui Teodora prosegue il percorso avviato lo scorso anno da “À elle vide”, questa volta a nome di una compagnia vera e propria, Dewey Dell. Ma se “À elle vide” aveva sorpreso per originalità dei movimenti coreografici e dinamiche sceniche messe in atto, il nuovo spettacolo rimane invece distante da qualsivoglia progresso, se non quello – impressionante – di una trama sonora (curata come sempre da Demetrio Castellucci) efficacissima, in grado di porsi come vero e proprio elemento drammaturgico a sé stante. Risulta invece un piccolo gioiello la performance “site specific” della Socìetas Raffaello Sanzio, “Storia contemporanea dell’Africa vol. III”. Il pubblico viene sistemato all’ingresso di una sala rettangolare molto profonda, completamente spoglia, su una parete della quale è proiettata una sorta di grande luna. Da una porta sul fondo della sala esce Romeo Castellucci. Nessuna espressione, si ferma, si rivolge fissamente alla simil-luna. La porta in fondo si riapre e ne escono i sei figli del regista, forieri di una nera struttura lignea antropomorfa, una specie di statua cava dentro la quale si adagia Castellucci padre. Sulle note della meravigliosa “Careless love” di Bonnie Prince Billy la statua/bara viene ora sigillata, elevata e posta contro la luna, dove si rivela come una figura in preghiera o in adorazione. Un marchingegno a compressione collegato alla struttura ne fa infine fuoriuscire dal volto una schiuma bianca (lacrime?). Il rito è compiuto. Non un sacrificio, bensì un atto d’amore. L’artista, con l’aiuto dei figli, si fa esso stesso creazione.

       
       

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  Padri e figli
     

Nicola Arrigoni, Sipario, nr. 711, ottobre 2008

     

 

     

Il teatro? Una famiglia allargata nel divenire dei linguaggi, dove artisti e spettatori giocano il loro ruolo ugualmente fondamentale di autori.

Drodesera Fies, ogni anno con maggiore convinzione e rigore, conferma l'idea performativa del teatro, ovvero quel hic et nunc dell'essere in scena che non chiede di essere racconto ma che pretende di esser-ci e basta. Drodesera Fies riesce ogni volta non solo a raccogliere in dieci giorni di intensa programmazione festivaliera quelli che sono i protagonisti della ricerca italiana ed europea, ma a fornire un indirizzo sullo stato dell'arte della contemporaneità. L'ex centrale elettrica si trasforma in uno spazio scenico multiforme, a tratti imprevedibile, parte integrante degli spettacoli, o meglio delle performance che ospita, una sorta di casa mutante per una famiglia d'artisti che ha trasformato dall'interno i meccanismi di relazione, fino all'atto ultimo e di antica ribellione in cui i figli sacrificano il padre/regista, come accade nella performance conclusiva Storia contemporanea dell'Africa vol. III della Socìetas Raffaello Sanzio.

Padri e figli

Noi siamo una famiglia é il tema dell'edizione 2008, una famiglia che è cambiata dall'interno, s'è allargata, forse disgregata, ma è pur sempre famiglia di cui artisti e spettatori fanno parte, la famiglia di un teatro che non teme di accogliere corpi estranei, linguaggi altri, non teme di chiedere allo spettatore di giocare un ruolo relazionale non più di voyeur ma di autore/attore. Ed è questo mutamento di relazione che racconta a suo modo Drodesera nell'ospitare gruppi - più o meno consolidati - di quel teatro performativo che abbisogna - un po' come accade nell'arte contemporanea - dell'apporto sodale all'atto artistico a cui assiste.
E' questa l'impressione che regalano East e Kansas di Fanny & Alexander; due lavori differenti per forma e intensità ma che propongono l'essere in scena piuttosto che il raccontare. I due "spettacoli" sono parte di un progetto più ampio che comprende Dorothy, Him ed Emerald City, prendendo spunto dal Mago di Oz di Frank Baum e dal film hollywoodiano del 1939.
In East il performer Koen De Preter evoca le tragedie dell'Est asiatico, dal Vietnam alle carneficine di Pol Pot. In East sembra di poter vivere l'angoscia di Apocalypse Now, c'è il martellante scandire degli ordini, ci sono le sinuose movenze di una danzatrice proiettata sul torso di Koen De Preter che chiedono all'occhio dello spettatore di narrare la propria storia, di dare all'uomo di latta un cuore nuovo in cambio di un racconto.
In Kansas il ritratto di donna di Sebastiano del Piombo, Mad Kate di Henry Fuseli, Berthe Morsot col bouquet di violette di Eduard Manet, Dorothy Thorpe di John Everett Millais e l'autoritratto di Helene Scheirfbeck sono appesi alle pareti di una galleria d'arte e sono i cinque sguardi di altrettante donne, travolte dall'uragano dell'arte, in una sorta di martellante sindrome di Stendhal. Una donna delle pulizie, una signora elegante in visita al museo, Dorotea Tempesta, la performer Dorothea, Dot un'impacciata studentessa d'arte agiscono il proprio sentire, che alla fine si somma in Dorothy. Le azioni delle singole Dorothy sono attraversate dall'uomo con baffetti, omaggio al piccolo Hitler di Cattelan, una presenza tangente a tutto il progetto di Fanny & Alexander, una presenza che incombe anche sull'idioma della bussola ideato da Stefano Bartezzaghi che chiude Kansas in un annuncio di tragedia sul mondo con quell'uomo inchiodato ad un banchetto di scuola che sembra un omaggio a Kantor. Anche per Kansas vale quel che si diceva per East, è lo sguardo attivo dello spettatore che si fa autore partecipe a quell'azione che si propone come tale e i cui rapporti di senso appaiono talmente oscuri ed ellittici da lasciare spazio alla doverosa interpretazione autorale dello sguardo dalla platea.
In questo lavorare per commistioni di linguaggi si pone l'iper-tecnologico Primo studio concerto per voce e musiche sintetiche dei Santa Sangre, una performance visiva che gioca con gli ologrammi e attraverso una sofisticata tecnica video espande e dà confini altri al corpo, confini tratteggiati dalle immagini, dalla campionatura dei suoni, dalle voci e da una partitura coreografica che sembra essere imparentata con la danza butho. How do you like my landscape degli artisti Manah Depaw e Bernard Van Eghem sviluppa in quattro frammenti una sorta di paradossale parabola del divenire del mondo e della mercificazione del corpo. Ciò si espleta in una sorta di camera laboratorio in cui un paesaggio montano - agito con soldatini e animali da presepe - è invaso dal corpo e dal sesso morente di Bernard Van Eghem, manipolato e oltraggiato fino alla morte da Manah Depaw, una sorta di burattinaia/infermiera un po' fetish. Se pure non tutto - come in quest'ultimo caso - appare finito e compiuto, Drodesera Fies rappresenta sempre più l'avanguardia del teatro d'arte, o meglio il laboratorio rigoroso per un teatro contemporaneo che sempre meno si esaurisce nel trittico attore, testo e parola e sempre più fa propri linguaggi altri per vivere e documentare la familiarità con una realtà multicodica e mescidata come quella attuale.

       
       

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  East. Fanny & Alexander nel destino dell'Uomo di latta
     

Claudia Mannini, klpteatro.it, 9 ottobre 2012

     

 

     

Fanny & Alexander ci lanciano una sfida allo spazio K di Prato con “East”, spettacolo che risale al 2008 e fa parte del più ampio “OZ project”, che ha impegnato il gruppo ravennate dal 2007 al 2010 ed è basato sulla storia del celebre romanzo di F. L. Baum “Il meraviglioso mago di Oz”.
Dopo aver visto le altre tappe del progetto, seguiamo “East” all’interno della X edizione di Contemporanea, il festival che inaugura la nuova stagione del Metastasio, e che quest’anno è incentrato sul rapporto tra psiche e fisicità.
Lo spazio scenico è una scatola nera, quasi vuota. Pochi dettagli si staccano da questo nero uniforme: verso il fondo due ventilatori a soffitto, quattro fari ci fronteggiano, così come l’immagine di Oz-Hitler (Him), il mago dittatore che compare in altri spettacoli del progetto e che fra poco si illuminerà. Più avanti, quasi sul proscenio, un grande baule scuro a sinistra, a destra un piccolo impianto stereo.
Un uomo biondo e dall’aspetto delicato ci guarda e aspetta, seduto sul baule, mentre prendiamo posto in sala. I suoi vestiti ricordano quelli di un militare, forse un marine.
Quando le luci si spengono, un fascio di luce fredda si getta su di lui e su una musica, una pulsazione ritmica martellante. Oz-Hitler comincia a parlare. Chiede all’uomo di raccontargli la sua storia, ma in realtà è lui, Oz, a dettargliela. L’uomo dà la sensazione di essere inerme, una cavia da laboratorio presa in trappola. Eppure compie il suo tentativo, e quello che ne risulta è una danza indecifrabile, una “coreografia morse” che traduce le parole scandite perentoriamente da Oz - un vocabolario essenziale di “Heart”, “Hand”, “Me”, “Girl”, “Spell”, “Love” - in un movimento che è, appunto, il correlativo di quelle parole nel linguaggio morse.
Dal foglio di sala apprendiamo che la storia raccontata così frammentariamente è quella del povero taglialegna del Mago di Oz, fatto a pezzi dalla sua stessa scure a causa di un incantesimo della Strega dell’Est, e ricostruito come Uomo di latta, senza più un cuore. Adesso la sua stessa storia viene fatta a pezzi da Oz e rimontata a suo piacimento, e l’Uomo di latta, come il performer, cerca di re-incarnare quelle parole, di riattraversare l’esperienza che gli è stata espropriata e poi vomitata fuori, a brandelli, da questo Oz che è anche e soprattutto un Grande Fratello di orwelliana memoria.
“Witch!”, esclama il Grande Fratello, e l’uomo procede a tentoni, con una mano sopra gli occhi a impedirgli di vedere. Poi prende qualcosa, forse un proiettore, e si siede di spalle dopo essersi tolto la canottiera. Sulla pelle bianca, adesso che il buio è completo, si materializza un’immagine, una donna orientale, forse cambogiana, forse vietnamita, che danza.
Il corpo dell’uomo incorpora la strega, la muove, ne è mosso, la danza e ne è danzato. E dal rumore emerge un canto, e poi elicotteri, rumori di guerra assordanti; l’uomo ripete la sua oscura danza, il suo glossario morse in movimento, incapace di un altro linguaggio, mentre le luci diventano intermittenti.
Dopo un climax il rumore cessa, la danza si produce in silenzio, i fari sul fondale si accendono gradualmente di luce dorata, e sulla scena si diffondono placidi suoni del mondo naturale: ronzii e canti di uccellini, che traghettano il protagonista verso il pubblico per un conclusivo: “Mi chiamo Koen, sono un performer, e questo è il mio racconto”.
Lorenzo Donati nella postfazione di “O/Z – Atlante di un viaggio teatrale”, volume pubblicato da Ubulibri nel 2010 su Fanny & Alexander, sostiene che negli spettacoli della compagnia ravennate “guardare non basta”, esortando quasi lo spettatore ad un surplus di impegno interpretativo/partecipativo.
Effettivamente, in fase di scrittura e quindi di “ripensamento”, lo spettacolo ritrova un senso e una compiutezza che a un primo sguardo, quello immediato in teatro, sfugge. Eppure torna anche alla mente lo spettacolo di Philippe Quesne visto a Short Theatre poco tempo fa, e presentato anche a Contemporanea: “L’effet de Serge”, in cui il protagonista, al termine dei piccoli spettacoli pirotecnici offerti in dono a improvvisati spettatori, ne minimizzava la portata metaforica, richiamando alla realtà il suo pubblico che, invece, tendeva a impegnarsi in spropositate attribuzioni di significato a quegli “effetti” tutto sommato semplici, quasi banali.
In quel caso qualche riverbero c’era; nell’atto stesso della performance avveniva un qualcosa che, immediatamente, ci toccava, ci riguardava, produceva un senso.
Qui invece la sensazione è che, nonostante un’architettura perfettamente bilanciata, una regia geometrica di effetti raffinati, che veicolano una bella idea all’interno di un progetto interessante, lo spettacolo sia una macchina perfetta come l’Uomo di latta, ma, proprio come lui, priva di un cuore. Spetta davvero a noi spettatori regalarglielo?
Si diceva poi della famiglia Castellucci. “Kin keen king” è lo spettacolo con cui Teodora prosegue il percorso avviato lo scorso anno da “À elle vide”, questa volta a nome di una compagnia vera e propria, Dewey Dell. Ma se “À elle vide” aveva sorpreso per originalità dei movimenti coreografici e dinamiche sceniche messe in atto, il nuovo spettacolo rimane invece distante da qualsivoglia progresso, se non quello – impressionante – di una trama sonora (curata come sempre da Demetrio Castellucci) efficacissima, in grado di porsi come vero e proprio elemento drammaturgico a sé stante. Risulta invece un piccolo gioiello la performance “site specific” della Socìetas Raffaello Sanzio, “Storia contemporanea dell’Africa vol. III”. Il pubblico viene sistemato all’ingresso di una sala rettangolare molto profonda, completamente spoglia, su una parete della quale è proiettata una sorta di grande luna. Da una porta sul fondo della sala esce Romeo Castellucci. Nessuna espressione, si ferma, si rivolge fissamente alla simil-luna. La porta in fondo si riapre e ne escono i sei figli del regista, forieri di una nera struttura lignea antropomorfa, una specie di statua cava dentro la quale si adagia Castellucci padre. Sulle note della meravigliosa “Careless love” di Bonnie Prince Billy la statua/bara viene ora sigillata, elevata e posta contro la luna, dove si rivela come una figura in preghiera o in adorazione. Un marchingegno a compressione collegato alla struttura ne fa infine fuoriuscire dal volto una schiuma bianca (lacrime?). Il rito è compiuto. Non un sacrificio, bensì un atto d’amore. L’artista, con l’aiuto dei figli, si fa esso stesso creazione.

       
       
       
     

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