Rassegna Stampa - Spettacoli
       
      Heliogabalus
       
     

Elke Van Campenhout, Sbalorditivo!

Jeroen Versteele, Bello e irritante nello stesso tempo

Tommaso Pasquini, Alla Centrale Fies di scena l’impossibilità di comunicare. E’ il destino di Heliogabalus

Elena Franceschini, "Heliogabalus" che fa discutere

Mario Bianchi, Viaggio in Italia

Giorgio Sebastiano Brizio, Da Manila a Drodesera: il testo nei teatri dei festivals

Goffredo Fofi, Adolescenza torbida. Fanny, Alexander ed Eliogabalo

Alessandro Fogli, Impenetrabile "Heliogabalus". Teatro estremista di Fanny & Alexander in scena all'Ardis Hall di Ravenna

Franco Cordelli, "Heliogabalus", solo gesto teatrale

       
       
    Sbalorditivo!
      Elke Van Campenhout , De Standaard , 15 febbraio 2006
       
     

Fanny & Alexander stupisce con uno spettacolo sull’imperatore romano adolescente Heliogabalus.

Heliogabalus era l’imperatore romano ancora adolescente che sostituì Giove con il culto del dio sole Elagabal e, secondo la tradizione, ne conservò le abitudini esotiche. La compagnia italiana Fanny & Alexander utilizza materiale storico per offrire un ritratto enigmatico di un imperatore considerato come un emarginato incompreso.

Heliogabalus è presentato nei libri di storia come un personaggio effeminato, dissoluto e crudele. Storicamente, poco si sa sul suo conto ma nel corso del suo breve regno si sarebbe spesso scontrato con la cultura e le tradizioni romane. Non solo egli sconvolse il mondo tradizionale degli dei proclamandosi imperatore-pontefice massimo di Elagabal, ma introdusse anche un culto orientale che prescriveva danze e abbondanti offerte per il dio sole.

Heliogabalus viene rappresentato anche come l’imperatore-danzatore che si esibisce nel tempio davanti alle orde dei soldati. La sua origine e il nome Vario, da lui scelto, derivano dal carattere di grandissima libertà sessuale di sua madre, la quale sarebbe stata fecondata da 6 uomini nello stesso tempo.

Nella rappresentazione di Fanny & Alexander, Heliogabalus è interpretato da 3 danzatori nudi. Nel centro della scena, con una falsa corona sulla testa o traballando impetuosamente su un paio di sci, il giovane imperatore appare come un’immagine abbagliante dalla bellezza incomprensibile.

L’imperatore non è capace di esprimersi. Egli parla in frasi musicali, abusa delle melodie molto note delle arie di Mozart e cerca avidamente nel riflesso di un cucchiaio d'argento una immagine di se stesso. Heliogabalus si trova al centro della scena come se fosse in un abisso infinito di incomprensione.

I suoi discorsi sono inintelligibili, i suoi movimenti sono privi di senso, la sua solitudine è insormontabile.

La sua resistenza diventa sempre più accanita. Con rumori e grida assordanti, egli tenta di uscire dal suo bozzolo. Ma i suoi tentativi si schiantano contro il silenzio che lo circonda.

Heliogabalus è uno spettacolo tanto coerente quanto irritante. Lo spettatore cerca costantemente dei punti di riferimento e un linguaggio comune per comprendere ciò che vede. Vorrebbe interrompere le movenze sensuali e fermare la violenza chiassosa. Ma ogni volta viene riassorbito dalla fascinazione per questo corpo androgino, per questa ribellione puerile del triplo personaggio.

Colui che la tradizione rappresenta alla stregua di un emarginato enigmatico, un importuno, un paria nella società romana, è raffigurato come un personaggio esotico che non ha il diritto di parlare. E’ un immigrato pericoloso che mette a repentaglio ciò che è stabilito: la differenza tra uomini e donne, tra bellezza e violenza, tra discorso e poesia.

       
       
    Bello e irritante nello stesso tempo
     

Jeroen Versteele, De Morgen, 15 febbraio 2006

       
     

Mai avuto una tale sensazione di irritazione e allo stesso tempo di ammirazione durante uno spettacolo. Il gruppo italiano di avanguardia Fanny & Alexander, con due attori Belgi nel cast tricefalo, opta per la fuga in avanti con Heliogabalus.

Il titolo rimanda alla figura di questo giovane imperatore romano (218-222), sadico e avido di sesso, il quale, in appena 4 anni, si assicurò fama immortale. Ne testimoniano varie biografie, commedie teatrali, romanzi che lo descrivono come un mostro degenerato con un’ossessione perversa per la violenza ed una insaziabile sete di sangue.

In Heliogabalus l’ispirato monarca è incarnato da tre attori che hanno tutti una “bellezza plastica” perfetta. Ognuno arriva sul palco con lunghi abiti diversi che però si tolgono rapidamente. Assumono pose che non nascondono nulla e frastornano il pubblico con rumori di tromba insopportabili; essi sconvolgono tutti i quadri di riferimento realistici e lo sviluppo narrativo. Non manifestano alcun imbarazzo nel confermare tutti i clichés in uno zapping scenico. Heliogabalus agisce come se fosse una donna, provoca i politici e l’alto clero, preferisce il piacere alla responsabilità. Tutto questo in una gigantesca scatola per immagini ricoperta da una carta da parati orribile con motivi che danno l’emicrania.

Non è una serata propriamente piacevole. Le immagini e le foto della mostra introduttiva mostrano sguardi estatici e bei corpi in chiaroscuro. Tale bellezza si ritrova soltanto nel 10% delle scene, il resto suscita pura irritazione. La bellezza si scopre nella splendida scena di apertura nella quale Heliogabalus attinge la luce in un cucchiaio per poi innalzarla verso il cielo. Emozionanti sono le scene nelle quali egli esce dal suo ruolo arrogante e mostra la sua incapacità di comunicare con il mondo esterno, e quelle in cui è sommerso dalla disperazione. Nella scena finale una voce lirica tagliente canta il dramma di Heliogabalus: “E se nessuno mi ascolta, allora racconterò l’amore a me stesso”.

Fanny & Alexander accentua con estrema violenza il cliché oltranzista del tiranno romano. Heliogabalus era un piccolo individuo irritante, un pain in the ass per i politici e i cittadini romani, e Fanny & Alexander irrita a sua volta il suo pubblico all’estremo. Ma bisogna dimenticare questa rappresentazione coraggiosa, per serbare nella memoria soltanto la raffigurazione destabilizzante di un giovane prigioniero di un corpo troppo bello ma asociale dal punto di vista delle relazioni umane.

       
       
Back to top   Alla Centrale Fies di scena l'impossibilità di comunicare. E' il destino di Heliogabalus
      Tommaso Pasquini, Il Trentino, 23 luglio 2006
       
     

Certo gli spettacoli di Drodesera non sono mai stati selezionati, e prima ancora concepiti, con l’intento di facilitare il dopocena, e lo spensierato rincasare dopo rilassanti passeggiate tra un lungo lago e l’altro. Né per cullare i sogni di chi pretende di ritrovare, nello spettacolo appena concluso, la conferma di una lezione di vita che da tempo ritiene appresa e assorbita. Nel bel mezzo di uno spettacolo di Dro, insomma, non si capita per caso, ma quantomeno dopo qualche domanda. La prima nasce solitamente per strada, cercando di capire come raggiungere il posto: l’affascinante e dislocata centrale idroelettrica di Fies a Dro (TN). L’ultima matura in sala di fronte a un gruppo di attori cui il pubblico ha appena affidato, temporaneamente, il ruolo di guida lungo un percorso di ricerca che va ben oltre lo spettacolo. Passando sicuramente per il parco della centrale agghindato a festa, dove venerdì, poco dopo la mezzanotte, confluivano i  tanti punti interrogativi in uscita dalla Sala Turbina 2, teatro della prima nazionale di Fanny & Alexander: “Heliogabalus”, il piatto forte (in tutti i sensi) della serata di inaugurazione dopo Virgilio Sieni e i Motus. Settantacinque minuti di tentativi (volutamente) irrisolti di trovare un linguaggio comune, un segnale di presenza, una fonte di contatto, una relazione, anche minimamente stabile: non solo quella tra un adolescente e un mito (quello di Eliogabalo appunto, sacerdote del culto del sole in Siria, imperatore a quattordici anni per volontà delle madri). Ma anche tra uomo e Dio; tra uomo e uomo; tra attori e pubblico che, infatti, e non a caso, non riesce ad instaurare un vero rapporto con lo spettacolo. Anzi piomba sin da subito in una sorta di fastidio e turbamento quando (dopo il silenzio dei nuovi gesti, quelli elaborati da tre attori che, frenetici, cercano invano il contatto con la luce proveniente dall’alto) un suono acuto di trombe orribilmente dissonante sintetizza ad altissimo volume la disperazione di una ricerca, di un tentativo senza sbocchi. Un suono tanto terribile quanto efficace, capace di mettervi a nudo (come i tre attori che recitano sul palco con tiare vescovili in testa e idoli-specchio al collo), che porta a cercare conforto nel vicino di posto, anche se già raccolto in se stesso con le mani serrate sulle orecchie. Un fastidio probabilmente necessario, che Fanny & Alexander ricercano sin dall’inizio attenti, letteralmente, a vomitarci addosso le difficoltà comunicative di un ragazzo-uomo-sacerdote-linguaggio. Mentre costringono il pubblico ad appigliarsi all’unica forma di comunicazione coglibile in quel momento: quella del corpo.

       
       
Back to top   "Heliogabalus" che fa discutere
     

Elena Franceschini, L'Adige, 24 luglio 2006

       
     

Lingua come processo e non come prodotto di una società. Lingua come gesto e non come intenzione. Lingua come forma, come significato ma presa in una sonorità misteriosa. E il ferro del mestiere teatrale, la parola, è stato vissuto nelle sue metamorfosi e nelle sue relazioni ancora durante la seconda serata di Drodesera.

Nella sua doppia natura, nella metamorfosi, argomento e titolo della rassegna, alla centrale di Fies è andato in scena, dunque, l’immancabile linguaggio e le sue sfumature.

Alla centrale di Fies, proprio a questo riguardo, s’è parlato molto di “Heliogabalus”, spettacolo dei Fanny & Alexander proposto in due repliche che la frattura del parlare, vissuta in prima persona da Eliogabalo, re adolescente in terra straniera che ha cercato d’inventarsi un linguaggio impossibile e per questo comprensibile a tutti, l’ha allestita direttamente sul palco insieme ovviamente ad altri aspetti. Non l’ha né evocata né esorcizzata questa spaccatura ma, con grande fatica di tutti i presenti – dai tre danzatori in scena alla platea – l’ha fatta vivere al momento. Semplicemente nel suo farsi. Senza prefazioni o introduzioni; e per finale c’era solo l’ombra di una voce.

Se la lingua ci rappresenta nel profondo, come è accertato anche dal buon senso, provare l’esperienza del suo sgretolamento senza la possibilità della catarsi è stata una sensazione particolarmente faticosa.

Di questo si è parlato molto nel dopo festival e durante l’incontro con gli autori Luigi de Angelis e Chiara Lagani. Questo spettacolo, finora, ha segnato il momento di maggior discussione in assoluto creando a sua volta fratture tra i pro e i contro. In questa disputa ha portato, a proprio favore, il fatto che il lavoro è stato finanziato dalle istituzioni belghe e in quel paese, diviso linguisticamente tra fiamminghi e francesi, lo spettacolo ha avuto molto successo. E probabilmente non è un caso.
       
       
Back to top   Viaggio in Italia
      Mario Bianchi, www.eolo-ragazzi.it, luglio 2006
       
     

(...) Il nostro viaggio teatrale prosegue a Dro dove alla centrale FIES Dino Sommadossi e Barbara Boninsegna ancora una volta hanno preparato un festival assai stimolante e che ancora una volta riesce miracolosamente a riempire le sale della centrale elettrica del paese trentino con un programma che ogni anno presenta il meglio del nuovo teatro italiano con uno speciale interesse per la danza rappresentata quest’anno da una personale dedicata a Johann Johansson e Erna Omarsdottir. Ha diviso molto il nuovo spettacolo di Fanny e Alexander "Heliogabalus", ispirato alla figura mitica del giovane imperatore massacrato con la madre all'inizio del terzo secolo dopo Cristo. Come spesso accade alla compagnia ravennate, il cammino dello sguardo dello spettatore è irto di spine e di anfratti nacosti in cui è difficile entrare.

La figura dell'imperatore ragazzo, evidente metaforizzazione dell'adolescente contemporaneo, è qui manifestata dalla nudità dei corpi di tre giovani attori che tentano inutilmente di confrontarsi con il mondo circostante, continuamente impediti da orpelli sempre diversi in un gioco di autodifesa estenuante e di ricerca di tenerezza che si esplica alla fine in una lingua impossibile. Importante anche la musica di Mozart con al centro le due arie di Cherubino del Don Giovanni, il giovane paggio innamorato di tutte le donne, icona perenne dell’adolescente alla ricerca di una sua identità. Ovviamente non tutto è chiaro nello spettacolo e gioverebbe una maggiore concentrazione dei temi ed un minore compiacimento della cripticità delle situazioni, ma il percorso è assolutamente originale ed affascinante nonché unico nel teatro italiano. (...)
       
       
Back to top   Da Manila a Drodesera: il testo nei teatri dei festivals
      Giorgio Sebastiano Brizio, Terzo Occhio, nr. 3, settembre 2006
       
     

(..) Sull'orlo blasfemo dell'incomprensibilità, due veri lavori di sperimentazione sulla ricerca di un nuovo linguaggio, in linea diretta o parallela alla Socìetas (Gibbons/Guidi) in “The Cryonic Chants”, sono: “Heliogabalus” di Luigi de Angelis e Chiara Lagani, ove – stravolgendo il consueto nitore scenico/attorale dei Fanny & Alexander, si da fondo alla “ragnatela” niociana sul pseudotrattato artaudiano alla ricerca di un nuovo “dire” fatto di pura voce, puro gesto, pure significanze semiotiche al grado zero di intelleggibilità, scanditi nelle 13 parti della storia di quei tre anni vissuti come adolescente adoratore del sole, come imberbe fanciullo e crudele imperatore. (..)

       
       
Back to top   Adolescenza torbida. Fanny, Alexander ed Eliogabalo
      Goffredo Fofi, Lo Straniero nr. 76, ottobre 2006
       
     

In Susana di Luis Buñuel, un film “minore” del 1950 che venne in Italia con il titolo di Adolescenza torbida, una ragazzina provocava il desiderio degli uomini, godeva della loro perdizione ed era, più o meno, il diavolo. Anche l’Eliogabalo di Fanny & Alexander ha del diabolico, ma in un senso più antico e sotterraneamente anticattolico, o anticristiano se si considera il cristianesimo come una religione poco “universale” che vuol schiacciare le altre ed escludere la possibilità di nuovi e superiori sincretismi. Il demone, anzi i demoni dell’inquietudine e della rivolta allo stato di cose accettato da tutti, o che tutti si viene costretti ad accettare, e non “il diavolo”. In questo Eliogabalo artaudiano Fanny & Alexander (Luigi de Angelis, Chiara Lagani, Marco Cavalcoli e giovani ottimi tecnici, Antonio Rinaldi alla scena e Mirto Baliani ai suoni, e tre giovani attori che non compaiono mai in scena insieme e che sono dei simili e diversi Eliogabali, i diversamente bravissimi Filip Bilsen, Maarten Goffin e Mauro Milone) apre nuove strade alla propria ricerca e nel suo “spettacolo” non conta tanto la seduzione quanto l’invasamento, una ricerca di sacra potenza e di nuova religione da parte del protagonista – con i suoi tre interpreti simili e diversi. Conta la sfida al mondo lungo le tappe di una furiosa lotta per definirsi, per definire, per affermare, per conquistare, in un progetto estremo e delirante, fino all’inevitabile caduta.

Chi ha seguito da anni l’eroico accanimento dei tre Fanny & Alexander (una Fanny e due Alexander), dalla loro adolescenza di artisti a una quasi maturità che non rinuncia all’adolescenza e che sa che la maturità non esiste, resta colpito dalla differenza tra questo spettacolo e i precedenti, anche quelli del ciclo nabokoviano di Ada e Van. Un tempo impressionava la loro ostinazione e il loro ardimento nel rappresentare una chiusura, nello stringersi nel bozzolo come bachi in una evidente paura dell’esterno e del mondo – con spettacoli sempre innovativi, santamente incuranti dei ricatti della “comunicazione”– ma si aspettava (e ci si augurava) un’uscita e che il baco mettesse le ali, diventasse farfalla e si buttasse infine nella vita e nel mondo. Oggi, di fronte a Eliogabalo si resta doppiamente sorpresi: per la maturità dello spettacolo e la sua adesione a un progetto teorico molto arduo, di fatto filosofico, in una logica continuità con i precedenti, e per le nuove aperture che esso propone.

Fanny & Alexander non cede in nulla neanche questa volta alla “comunicazione” (parola che nasconde assai male la sua nuova “ragione sociale”: intrattenimento e propaganda) ma alza il tiro, mira più in alto anzi altissimo, anche nel muoversi dissennato dei tre Eliogabali nel chiuso di una scena compressa. L’Eliogabalo storico – non quello della corriva leggenda criminale – era un ragazzo siriano di quattordici anni, gradito ai soldati romani d’occupazione perché sacerdote danzante del dio Sole. Essi lo fecero imperatore ed Eliogabalo regnò a Roma fino ai diciott’anni, quando fu ucciso assieme alla madre e consigliera, dopo aver tentato di imporre un culto monoteistico, che conciliasse il Sole e Gesù e altri dei in un unico dio, in un’unica religione. Imperatore ragazzino, Eliogabalo – qui gli Eliogabali – passa da uno stadio di vagheggiamento a uno di ricerca a uno di potere. Sogna una nuova religione di cui essere sacerdote, però, più che il potere politico. Siamo nel secondo secolo dopo Cristo, e Roma è non solo Senato ed Esercito, è anche, di già, il luogo del potere ecclesiale. Eliogabalo tenta di assumere il sacro su di sé: il luogo della purezza e dell’impurità, il luogo della verità. Tenta di fondare o diffondere una religione necessariamente sincretica, monoteistica ma ancora segnata dal paganesimo. E fallisce. Roma e la Storia, i Militari e i Sacerdoti non gli perdonano di non essere il Politico, di non apprendere rapidamente le astuzie del comando, della manipolazione, di quel tipo di seduzione che è specificamente politica. La tensione che esprimono sulla scena di questo radicalissimo Eliogabalo i tre nudi corpi di magrezze e fragilità ancora adolescenti, il loro agitarsi o quasi comprimersi verso impossibili rotture stretti in lacci nemici, il loro tentativo di una libertà e di una strada e di una verità senza saper controllare, di questo tentativo, le effettive possibilità e i mezzi effettivi, senza avere la chiarezza e la forza necessarie ma solo con l’intuizione, con il desiderio, con una sorta di intima compulsione che preme verso un compito enorme, può risultare scenicamente l’invito a una regressione, per lo spettatore, tuttavia non verso l’indietro, non verso il calore di qualcosa di primario e rassicurante, bensì via dall’oppressivo viluppo da cui bisogna districarsi, nello sforzo di trovare se stessi e la propria via di uscita e di ascesa, che appartengono (o appartenevano, o appartenevano e ancora appartengono, a un numero di pochi e pochissimi…) a una precisa età della vita. O dello spirito.

“Vari” e “solitari” i tre attori si muovono dentro una solitudine che appare obbligata, per così radicale ricerca (o quête), sono nostri specchi minoritari e accaniti, ma condannati. In epoca di consolazioni facili, di massima confusione e di menzogne sornione e assolute, Fanny & Alexander può anche disturbare alcuni per il suo filosofare ambizioso, ma in epoca di filosofie approssimate quanto roboanti, che sono in sostanza o ciance da guru e aspiranti guru e cialtroneschi inviti all’accettazione e all’adeguamento, osa stringere filosofia teatro religione in un’impresa destinata più che mai alla sconfitta – perché cerca di scoprire e indicare i legami oscuri tra le cose, oltre ogni “disciplina” – e però necessaria, generazione dopo generazione, e oggi più necessaria che mai. Osa ancora considerare il teatro come scena del sacro, luogo della rappresentazione per le domande reiteratamente irrisolte o senza risposta, che l’uomo si fa quando è “adolescente” e che non sa più farsi quando è “maturo”, e come scena dell’eterno scontro tra l’uomo, la sua miseria, la sua aspirazione a superare le colonne d’Ercole, o le metafisiche costrizioni che sono le colonne del cieco e rapato Sansone in un mondo di filistei. Sciogliere tanta e fondamentale tensione in uno spettacolo non è impresa qualsiasi. Di “adolescenti” come Fanny & Alexander abbiamo un grande bisogno, e ne ha un immenso bisogno il teatro moribondo e corrotto di questi anni. Auguri di una lunga adolescenza indefessamente ricercante, dunque, a Fanny & Alexander.

       
       
Back to top   Impenetrabile "Heliogabalus". Teatro estremista di Fanny & Alexander in scena all'Ardis Hall di Ravenna
      Alessandro Fogli, Corriere di Ravenna, 3 febbraio 2007
       
     

Va subito detto che l'Heliogabalus di Fanny & Alexander è uno spettacolo ostico, disturbante, apparentemente criptico. Ma disturbante lo è proprio perché, lontano da ogni provocazione, impone la riflessione vera, agli occhi delle convenienze estetiche, di una situazione che, come in una spaventosa simmetria, porta in scena non solo le vicende dell'imperatore adolescente ma anche, irreversibilmente, il dolore del teatro tutto.

Mediante la metafora dell'impossibilità comunicativa di Eliogabalo, Fanny & Alexander fa sua la crudeltà profetizzata da Antonin Artaud, con una rivendicazione piena dell'attuale incomunicabilità della creazione teatrale, momento unico, isolato, destinato in qualche modo a smarrirsi nell'attimo del suo contatto con il referente pubblico. "Un nuovo linguaggio fisico a base di segni e non più di parole", pretendeva quasi settant'anni fa Artaud, ed ecco che ora, in questo spettacolo, si compie un viaggio a ritroso nella comunicazione drammaturgica. Fino alla fonte della parola, della voce e dell'articolazione dei suoni che sono alla sua origine.

La carica seduttiva del testo viene cancellata definitivamente, le poche parole non vogliono dire più niente e assumono valore di segno, esattamente come il corpo nudo di Eliogabalo. Dopo il lungo viaggio all'interno degli infiniti potenziali semantici dell'opera nabokoviana Ada o ardore, Fanny & Alexander sparigliano ora le carte in tavola, passando a un teatro estremista, dichiaratamente iconoclasta.

Non è solo la paura dell'artista di rivedersi fissato in un'immobilità su cui non ha più il potere di intervenire, ma il furioso, disperato, dolente tentativo di insinuare la possibilità del dubbio estremo (e qui, sì, la provocazione è reale), quello riguardante il significato stesso - e dunque la comprensione - della propria opera.

       
       
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      Franco Cordelli, Il Corriere della Sera, 18 febbraio 2007
       
     

Avviandosi Heliogabalus verso la fine, poiché andavo annotandone ed enumerandone le singole scene, ho cominciato a fare il tifo per Fanny & Alexander, il gruppo diretto da Luigi de Angelis e Chiara Lagani. Se chiude alla dodicesima, mi dicevo, è preciso, perfetto. Dopo aver visto come il giovane duo ha trasformato Ada di Nabokov, tutto un gioco di incastri linguistici, lapsus, coincidenze, perché aspettarsi qualcosa di diverso? La questione del 12 è cruciale nell'Artaud metafisico, l'Artaud dei primi anni Trenta. Nel suo Eliogabalo, che si può leggere come un commento alla "Vita di Eliogabalo" di Lampridio, storico del IV secolo, dice che "se il Numero 12 rende l'idea della Natura al suo punto di espansione perfetta, di maturità integrale, è perché contiene tre volte il ciclo intero delle cose, quale si rappresenta con il numero 4; il 4 essendo la cifra del compimento nell'astratto o della croce nel cerchio".

Ecco, il compimento nell'astratto: ciò che Artaud chiama i Principi (dietro i fatti), insomma la sua idea alchemica del mondo. In essa i numeri davvero fondamentali sono l'1 e il 2 e Eliogabalo è il supremo tentativo umano di ricongiungere le due metà, il maschile e il femminile. Per Artaud tutto ciò che a Lampridio appariva sconcio, da vergognarsene a riferirlo, le sodomitiche e sanguinarie o "solari" gesta di Eliogabalo, imperatore dai suoi 14 ai 18 anni, il suo collocare il cono-fallo al vertice della gerarchia sociale e religiosa, è per Artaud da interpretare in chiave metafisica, o meglio concettuale - come oscuro-luminoso e concettuale è lo spettacolo di Fanny & Alexander.

"E' senza dubbio per eroismo che Eliogabalo commette quell'atto di crudeltà insigne e che è stato considerato da tutti come empio e abominevole, perché immotivato e gratuito; l'atto che gli fa uccidere di propria mano Gannys, il suo precettore, che egli ama ma che ostacola i suoi eccessi". La famosa anarchia di Eliogabalo, l'incoronato, è quella di ogni tiranno "che mette il mondo al proprio passo"; e poiché egli si credeva dio, dice il suo apostolo, "non commise mai l'errore di inventare una legge umana". Egli, continua Artaud, "si conforma alla legge divina alla quale è stato iniziato". Il che rende Eliogabalo davvero uno e bino. Buono, secondo il canone di Artaud; e pessimo secondo quello, meno metafisico, del povero Lampridio. Come non vedere in tanto esoterismo e misticismo un geroglifico che inscrive Artaud proprio negli anni Trenta, gli anni dei tiranni? In quanto a complicità con essi, perché Céline no e Artaud sì? L'obliquità è meno compromessa del discorso diretto? I privilegi sono nell'ordine naturale delle cose, alcuni hanno il privilegio della biondezza, altri della negritudine. Ma la rivendicazione ideologica dei privilegi è un'altra cosa e con Eliogabalo siamo proprio a questo, Eliogabalo è come Salomé, lei vuole la luna e lui vuole il sole. Siamo in quell'estrema frangia del decadentismo europeo che arriva fino a Nabokov ma che solo il trionfo dell'ossimoro (l'anarchico incoronato), l'ossimoro portato alle estreme conseguenze, può riscattare tutto recando nella zona del sacro, laddove l'impurità viene mondata, nello spazio teatrale. Vi si susseguono tre efebi, Filip Bilsen, Maarten Goffin e Mauro Milone, uno rosso, uno nero, uno bianco. Sono tutti e tre nudi, con un cono-corona in testa, con ai piedi un paio di sci e in mano le racchette. Essi adorano l'immagine della Madre, Moesia. Mostrano il proprio ano. Compiono acrobazie. Silenti, offrono alla nostra contemplazione un'immagine aritmetica e neo-classica di trinità, di doppiezza, di mistica unità.

Ciò che per Artaud era nigredo, la vita, qui, in Heliogabalus, diventa albedo, lieve e stilizzato gesto teatrale.

       
       
     

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