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Sullo sfondo l’immagine de L’ultima
assemblea alla Banca Federale di Friedrich Dürrenmatt o, qualora
fosse possibile, il quadro stesso. L’attore–personaggio parlotta
tra sé, è vestito di bianco; accanto a lui alcuni oggetti
dorati (un vaso o qualsiasi altro accessorio con una serie di monete sullo
sfondo. Vanno benissimo anche quelle di cioccolata, anzi più sono
improbabili e meglio è, come nel testo dürrenmattiano, vorrei
che il personaggio-attore avesse una biro dorata con cui scrivere indefesso
su fogli grandi simili a lavagna, in cui di tanto in tanto appunterà
le sue teorie; mentre inizia la sua conferenza-conversazione, si sente
un po’ intelleggibile e un po’ quasi completamente inudibil,
per frammenti, e Oro di Mango nell’interpretazione di Loredana
Bertè, come se venisse da una radio con dei gravi problemi al transistor).
Me lo ricordo bene quell’anno, fu tutta una complicazione. Fino
a poco tempo prima tutto andava a gonfie vele, mi sembrava di essere al
culmine della felicità. Erano decenni che i dividendi crescevano
a vista d’occhio. Ma poi era venuta la recessione, la crisi; io
a quella riunione in banca c’ero, sono uscito solo cinque minuti
prima che scattassero quella fotografia. Non ci posso far niente: le riunioni
di famiglia mi rendono triste, non ce l’avevo fatta a rimanere con
i miei colleghi che celebravano il lutto perché le loro azioni
e obbligazioni erano diventate carta straccia, mi annoiavano. (L’attore-personaggio
è completamente inondato da una violentissima luce color oro).
Quelli là, d’altra parte, erano dei dilettanti, per loro
l’oro (se mi distraggo un attimo mi vengono pure i giochi di
parole - ridacchia) era una necessità più che un fine.
Per me è diverso, io vivo per quello e non venitemi a dire che
sono una caricatura da due soldi di Paperon de Paperoni o un Arpagone
di maniera. Se mi dovete criticare, almeno trovate degli argomenti più
plausibili, perché a questi non ci crede proprio nessuno! Tutta
invidia e rancore: non capisco che abbiate da essere tanto rancorosi,
tutti possono avere il loro oro, anche voi, ma bisogna seguire le regole
e le regole sono ferree ed è inutile che speriate che io vi regali
il mio, poveri illusi!
Parte in sordina Gold degli Spandau Ballet, che poi diviene
sempre più forte, ma senza esagerare. L’attore-personaggio
la canticchia nel modo più stonato e fuor di sesto, producendo
infine dei suoni che cancellano la song e le si sostituiscono.
Che c’è? Non si può nemmeno pregare? Ognuno ha diritto
di credere in quello che vuole e io non credo in niente che non abbia
colore giallo. Pepite, filoni, polvere, monili, gioielli, lingotti, sbarre,
mattoncini, mi va bene perfino la placcatura, se è fatta bene.
Beh, c’è poco da dire: la storia dell’umanità
ha toccato un unico apice nella sua disastrosa trama di fallimenti: re
Mida. Quello è l’unico uomo per cui abbia mai provato invidia,
che è un sentimento che non ho mai avuto il tempo di avere, anche
se il finale della sua storia mi fa arrabbiare. Ma vi rendete conto: a
quello venne in mente (chissà chi glielo aveva messo in testa?
Senz’altro qualcuno che lo invidiava!) che trasformare tutto in
oro fosse una maledizione e per questo pregò Dioniso di liberarlo
dal suo potere, perché ne aveva paura, terrore, una fifa matta,
sì figurati! Che occasione sprecata! Che perdita per l’umanità!
Un attimo di pausa, l’attore si fissa su un qualsiasi oggetto
dorato e con una voce piena di desiderio dice:
Il vino si trasformava in quella bocca in liquido oro, tutte le ragazze
che toccava diventavano statue e popolavano il suo letto di metallici
trionfi. Il re viveva in un presepe a ventiquattro carati, non c’era
cibo che riuscisse a passare indenne da quelle labbra aride e felici;
aride per la polvere d’oro che sfregavano continuamente, felici
perché tutto ciò che baciavano diventava eterno, senza più
dover subire compromessi osceni con la vita. Da allora, da quando lessi
quella storia (avevo poco più di nove anni) l’oro
è diventata la mia missione e la mia carriera. Poco dopo mi sono
imbattutto anche, ridendo a crepapelle, nella vicenda dell’uomo
che per me da allora è il simbolo del fallimento e dell’idiozia
dell’umanità: Johann August Suter, che voleva impedire la
corsa all’oro in California, perché gli danneggiava i raccolti
di mele e pere. Ne aveva fatto un caso personale, gli era presa talmente
male che quello a momenti faceva una guerra contro i cercatori che poi
giustamente lo fecero fuori! Ma si può essere più scemi
di così!
Dicono che il denaro è lo sterco del diavolo, ma non è vero,
quello vale solo per la cartamoneta. Quella schifezza che diventa sempre
più laida ogni volta che viene toccata, io non l’ho mai potuta
sopportare. Ogni tanto, per quanto faccia lavorare tutti i miei segretari
come matti per risolvere questo problema, mi tocca toccarla e mi viene
il voltastomaco: è come un bruco schifoso e il suono che fanno
le banconote quando si accartocciano, mi fa accapponare la pelle, come
se stessi schiacciando un plotone di lumache con antenne lunghe, lunghe
che mi fanno il solletico e mi lasciano una bava urticante, che brucia,
brucia! L’oro invece è pulito, mi ci posso specchiare, mi
ci posso perfino lavare le mani e la faccia. Mi sono fatto anche una clessidra
piena di polvere d’oro, perché niente meglio di questo mi
fa capire che il tempo passa, ma io sono sicuro che se l’oro lo
pago abbastanza bene e gli sacrifico abbastanza metallo, allora il tempo
passerà come voglio io. L’oro è un riparo, una difesa,
una passione e una ricerca, un lavoro e una religione: I believe in Gold!
(un eco debole e distortissimo della stessa canzone degli Spandau
Ballet, a cui l’attore-personaggio fa eco).
L’attore-personaggio si rivolge ai suoi malcapitati ex-colleghi
della Banca Centrale. Torna l’immagine del quadro.
D’altra parte si è sempre parlato di un’età
dell’oro, mica del cemento o del polistirolo! (Compare, dissolvendosi
l’immagine precedente, L’età dell’oro di Pietro
da Cortona, che il personaggio-attore contempla con avidità). Lo
so anch’io che è tutta una metafora, ma non sarà mica
stata usata per caso; gli antichi volevano dire che nell’età
in cui l’oro sarebbe stato messo al primo posto, allora e solo allora
la felicità sarebbe stata generale. (si mette a cantare una
canzone, prima biascicandola a più non posso, poi in modo sempre
più chiaramente distinguibile, si tratta de L’età
dell’oro di Leo Ferrè, da cantarsi con tutta la possibile
sgangheratezza da chansonnier)
Noi avremo un pane
Dorato come le ragazze
Sotto i soli d'oro
Noi avremo un vino
Di quello che frizza
Anche quando dorme
Noi avremo un sangue
Dentre le vene bianche
E per sempre allora
Lunedi sarà domenica
Ma la nostra età
Sarà l'età dell'oro
Noi avremo letti
Scavati come ragazze
nella sabbia fine
Noi avremo frutti
Quelli che si graffignano
Nel campo vicino
Noi avremo certo
Dentro le case smorte
Tutti i lampioni azzurri
Che lassù se ne vanno
Ma la nostra età
Sarà l'età d'ell'oro
Noi avremo il mare
A due passi dalla Stella
Nei giorni di gran vento
Noi avremo l'inverno
Con una cicala
Nei capelli bianchi
Noi avremo l'amore
Dentro i nostri problemi
E i nostri discorsi
Finiranno con "ti amo"
Venga venga allora
Venga l'étà d'ell'oro
Avete sentito che bella favola, riscalda il cuore, ma c’è
un errore grave: l’autore sbagliava il mezzo con il fine, le ragazze
con l’oro, che dilettanti ‘sti letterati!
Lo so anch’io che certi passatempi non sono tanto salutari, ma per
l’oro questo ed altro. Non c’è limite al mio desiderio,
non c’è freno alla mia passione. Io lo mangio, poi lo trasformo
in rifiuto ed è sempre oro. E’ l’unica materia al mondo
che non subisce mai alterazioni; gli posso fare quello che mi pare e lui
mi rimane fedele per l’eternità e non mi tradisce mai. (si
interrompe per un attimo) Come? L’oro non fa la felicità?
Posso comprarci il corpo di qualcuno, ma non il cuore? E a me che me ne
frega del cuore? Quel che voglio io invece è proprio il corpo.
Quando noleggio una ragazza dai miei soliti fornitori, voglio che sia
vestita d’oro, sono io che passo alla ditta una serie di oggetti
cerimoniali e voglio che la ragazza di turno li indossi tutti quanti prima
di avvicinarsi a me, se no non le ammetto nemmeno a casa mia. Poi le dipingo
tutte d’oro; quelle all’inizio recalcitrano, urlano; poi ricordo
loro che prenderanno un bel po’ d’oro per essere dipinte d’oro
(ho una mia tradizione, per cui le pago con un sacchetto di monete
antiche, talleri o ghinee e quelle quando lo aprono fanno un sorriso a
trentadue denti, che mi dà una gran soddisfazione) e allora,
come per magia, stanno zitte, quelle galline e fanno quello che voglio
io. Non è vera quella storia che se gli dipingi la pelle tutta
d’oro, poi muoiono perché la pelle non respira più.
Scemenze: l’ho fatto centinaia di volte e poi basta una passata
di spugna per toglierlo. Però mi dispiace e ci metto un bel po’
a staccarmi da quei corpi decorati, passo ore a rimirarli. Quello che
mi piace e che mi interessa è specchiarmici. Quelle ragazze d’oro
sono il mio specchio: l’immagine della mia anima.
Musica L’amore di Danae di Richard Strauss –
immagine Mabuse, L’amore di Danae
L’attore-personaggio si guarda allo specchio, parla sottovoce, è
come se si stesse raccontando una favola ed è esattamente questo
che fa, si/ci racconta una storia come illusoria pausa lirica nella sua
crudele disamina metallica. La musica di Strauss che narra l’episodio
della seduzione e dello stupro per tramite della pioggia d’oro,
rimane fino alla fine del racconto in sottofondo, mutandone l’intensità
a seconda della bisogna.
Danae era figlia del re Acrisio: una sibilla disse al monarca che il figlio
di sua figlia, la belliiiissiiiima e da tuttiiii amaaata Danae, lo avrebbe
ucciso. Per questo egli la chiuse nella stanza più nascosta del
suo palazzo, nel più tetro sotterraneo, nella carcere più
crudele, serrando ben strette le catene. Eppure l’oro si fece strada
fino a lei e fu salva e la profezia si avverò puntualmente. Giove
si trasformò in finissima polvere e penetrò fino a lei;
la pioggia d’oro esaltò la ragazza che divenne, secondo le
regole, madre del futuro assassino di suo padre, (improvvisamente
il tono da elegiaco si fa decisamente cattivo e sarcastico) bla,
bla, bla, bla, bla, bla, bla. C’è poco da dire: la parte
finale di questa storia io non l’ho mai sopportata. La predestinazione
mi annoia quanto l’obbligo del lieto fine, la morale per me è
un’altra: niente ferma l’oro. Il metallo scorre e spunta fuori
dalle viscere della terra e va dove gli pare trovando tutte le strade
più imprevedibili per giungere alle mète che gli interessano.
Un giorno mi aveva chiamato un mio amico finanziere e mi aveva detto:
vai nella Sierra Pelada in Brasile e compra un appezzamento di terreno
e io l’ho fatto, subito: trentadue ettari. Sono stato io, sì
proprio io, a inventare quel sistema che non falliva mai. (parte una
fotografia o anche più di una della serie di Sebastiano Salgado
sulla Sierra Pelada con i garimpeiros che scalano faticosamente la montagna
con le gerle in spalla, il personaggio-attore ridacchia). Tutti quei
cercatori che andavano là credevano di essere liberi, ma invece
guarda un po’ erano tutti miei schiavi; ero io che gli vendevo da
mangiare e da bere e dovevano ballare sulla musica che volevo io. Dovevano
arrampicarsi sulla motagna (indica con fare didattico e professorale
la o le foto di Sebastiano Salgado), spaccarsi la schiena e riportare
giù ogni volta un sacco pieno di fango. Alla fine della giornata
potevano scegliere uno dei sacchi che avevano trasportato e tenerselo,
dentro poteva esserci la ricchezza, la libertà, oppure niente.
Beh, guarda caso, per lo più non c’era niente, ci pensavo
io che le cose andassero così che se no poi quelli si montavano
la testa, comunque mi erano tutti grati: vorrei vedere: gli vendevo la
speranza! Quella vale tanto oro quanto pesa e tutti sono disposti a tutto
per non perderla. Ogni mese andavo in pellegrinaggio a vedere il raccolto
d’oro: era un momento sacro, mi chiudevo in una baracca di legno
che mi ero fatto costruire e poi passavo il tempo in ammirazione delle
pepite che avevano trovato i miei schiavi, alcune simili a pigne, altre
a sfere, altre ancora informi quanto enormi e simili solo all’oro,
nel suo massimo fulgore. Poi è stata una tragedia, quella miniera
l’hanno chiusa e ora l’oro mi tocca andarlo ad adorare nelle
banche e non è proprio la stessa cosa, il rapporto è meno
carnale e poi ci sono quegli sguardi rancorosi dei cassieri, dei contabili,
che son sempre a spiarti, quando vai alle cassette di sicurezza, ma bisogna
accontentarsi, con i tempi che corrono. Di recente ho fatto un sogno:
Mi muovo verso la mia Mercedes color oro, quando una ragazza con un dalmata
si manifesta. Il marciapiede è strapieno, è come se lei
passasse attraverso la folla, io le vado dietro, perché so che
lei vuole che io la segua, e così arriviamo in centro, nella zona
pedonale, in quella piena di negozi di orefici dove passo il tempo. Entro
in un mondo fatto d’oro, l’oro turbina in cielo, l’oro
piove dalle nuvole, l’oro lastrica la strada. Passo davanti a gioiellerie,
vetrine con bambole alla moda che hanno facce, spalle, braccia, mani e
gambe d’oro, come reliquie di santi immaginari di secoli da troppo
tempo dimenticati. Un’altra vetrina è piena di maschere dorate,
che luccicano in modo incredibile, fanno quasi male agli occhi. La ragazza
apre un portone. Quando raggiunge il portone, è chiuso. Il palazzo
stona con il centro storico restaurato. All’improvviso si sente
un ronzio e il portone si apre. Pareti nude, una scala a chiocciola, infine
una porta di legno marcia. Non è chiusa a chiave: una stanza semplice,
alcune poltroncine, una scrivania, un televisore, un’altra stanza,
un tavolo, alcune sedie, una stanza da letto, sul grande letto la ragazza,
nuda, davanti il dalmata. Mi prende un desiderio sfrenato e di cui ben
capisco il motivo. Il desiderio sfrenato di continuare a vivere, di vivere
in eterno, di vivere nella dorata immagine di me, nella rifrazione di
infinite maschere d’oro. Mi strappo i vestiti di dosso e mi getto
sulla ragazza, ma lei è tutta d’oro. Nell’aria c’è
un rumore stridente. Cicale d’oro friniscono…
Beh, più che un sogno è un desiderio, mi sono poi svegliato,
finalmente consolato e ho pensato a Pluto, il dio della ricchezza. Per
gli antichi era cieco, perché le sue regalie dovevano colpire a
caso, senza discriminazioni né distinzioni. Che consolazione per
i poveri, quella di credere che in definitiva per loro c’è
sempre una ultima chance, anche senza far nulla; che basta aspettare e
i soldi ti cascano addosso dal cielo! Non è così, ve lo
garantisco: l’oro non va guadagnato e basta, va propiziato, attratto,
lusingato, sedotto, implorato e soprattutto ringraziato: è come
avere a che fare con un essere umano, anzi di più. Non si può
credere di trovare il grande amore della propria vita solo affidandosi
al sogno, bisogna darsi da fare. Agire. L’oro ama l’azione,
è l’unica cosa che gli piace, quello è l’unico
modo di procacciarsi il suo rispetto, di farsi prendere sul serio. E pensare
che c’è chi dice: “non vi fidate dell’oro anche
portato in dono. L’olio d’oliva può servire per pagare
bilanci. Lo zolfo e i vetri di Venezia possono servire a pagare bilanci”,
ma sì, figurati, povero illuso! (Comincia a infervorarsi sempre
di più, urla, è scomposto, ripete la stessa formula più
volte, all’inizio come un mantra e poi con sempre maggiore violenza)
In Gold we trust. In Gold we trust. In Gold we trust. In Gold we trust.
In Gold we trust. Tutto il resto non conta, non conta niente. (Parte
Goldfinger nella versione remix dei Propellerheads, lentamente diviene
sempre più forte e il lunghissimo acuto finale cancellerà
tutte le parole) Non contano le lettere d’amore (brucia una
lettera), non contano le dichiarazioni d’amicizia (brucia un altro
foglio), non conta nulla, proprio nulla, a parte l’oro.
Mentre esplode la musica, torna l’immagine del quadro iniziale,
una luce color oro avvolge il personaggio, che fa a pezzi freneticamente
dei fogli di cartamoneta del Monopoli.
The End
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Oro
Ri-scrivere il mito. Breve viaggio negli inferi
tra Frederich Dürrenmatt e Luca Scarlini di
Eugenio Sideri È da circa due anni che lavoro sul
mito: dal mito parto per arrivare ai testi, specialmente a quei testi dove
il mito è ri-proposto, ri-scritto, ri-pensato. Così è
stato con Filottete e Heiner Müller: un incontro tra mito e Storia
dal sapore ferocemente attuale. È cominciato così lo
scavo, la ricerca verso una ri-scrittura che avviasse una verità
al di là delle parole scritte, al di là della letteratura.
Quelle parole dovevano diventare teatro. E in quanto teatro, carne e corpi
e voci.
Mi accingevo ad un viaggio verso l’ignoto della scena. Le prove del
Filottete avrebbero avuto inizio il 12 settembre 2001. Cercavo un “compagno
di viaggio” che mi aiutasse a rendere sulla scena quelle parole ri-trovate.
A luglio raccolsi al volo un’indicazione di Marco Martinelli: leggere
La Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini. Ed il 16 luglio ciò avvenne.
“ Come testimonia una lettera a Luciano Serra del settembre 1945,
Pasolini da giovane provava verso Dante l’insofferenza e la diffidenza
che provava per i padri. Ma a Roma nel 1950 chiede aiuto a Dante per scendere
nell’inferno delle borgate”.
La sottolineatura risale alla mia prima lettura del 16 luglio, appunto.
Chiedevo e cercavo aiuto verso un viaggio nell’inferno del blankverse
mülleriano. E lentamente lo trovai nelle creature che avevo in scena,
i quattro giovani attori con le loro storie, quelle di ogni giorno, della
loro adolescenza, dei loro amori e del sesso, del calcio del cibo delle
moto.
Ma ogni viaggio è a sé stante e i compagni di viaggio, quelli
di carne e quelli metaforici, cambiano.
Due anni dopo Luca Scarlini mi propone la realizzazione di una performance:
Gold. L’evento parte da una occasione peculiare: il Centro Culturale
Svizzero presenta per la prima volta in Italia alla Galleria d'Arte Moderna
di Bologna il corpus delle opere grafiche di Friedrich Dürrenmatt.
In concomitanza la Marcos y Marcos mandava in libreria uno degli ultimi
testi: Mida e lo schermo nero, a metà tra cinema dell'impossibile
e narrazione per frammenti.
Leggo in anteprima dell’uscita editoriale il testo di Dürrenmatt:
un fantastico delirio visionario tra realtà e finzione, sia teatrale
che cinematografica. Una re-invenzione del mito di Re Mida, spostata su
vari livelli reali ed immaginari che tra loro si intersecano. Mi piace molto
l’invenzione di Dürrenmatt, il suo modo feroce e senza scrupoli
di impossessarsi del mito e farne altra carne, darne altra vita.
Accetto di realizzare l’evento, sgomento di cosa potrò fare
e ancor più spaventato alla notizia che Luca ri-scriverà a
sua volta un adattamento del testo dürenmattiano, ma, invece di un
adattamento emerge una drammaturgia originale, che mantiene di Dürrenmatt
solo il riferimento a Re Mida, declinato in altre forme.
La discesa pasoliniana ha di nuovo avvio: questa volta mi accompagnano le
parole, le musiche e le immagini che Luca mi propone.
Nascondo l’attore, o meglio, faccio finta in un primo momento di non
vederlo. Penso esclusivamente all’ipotesi di messa in scena.
Anche Dürrenmatt, dopo un po’, scompare. Resta l’alone
del mito, il suo essere inconsistente ma presente con energica vitalità
nelle parole scritte da Luca. Resta, e non è affatto poco, il testo
di Luca che ormai ha travalicato l’autore svizzero divenendo forma
letteraria autonoma.
Con Luca vedo sorgere un primo corpus di materiale testuale, infarcito di
tutti i riferimenti possibili all’oro, al suo mito ed alla sua mitizzazione.
Il suo testo cavalca immagini, musiche e storie - si va dal mito classico
di Re Mida alle foto di Salgado alla Sierra Pelada brasiliana, passando
per l’Amore di Danae, Goldfinger, fino a Gold degli Spandau Ballet,
efficace citazione degli anni ’80.
La scrittura di Scarlini mi offre un ventaglio di possibilità: il
suo testo mi si propone come drammaturgia in esubero, vero e proprio materiale
che potrebbe anche essere già pronto per la scena. Forbici alla mano,
e con la compiacenza dell’autore, comincio a tagliare, disegnando
l’abito scenico all’evento e all’attore. Lo scambio epistolare
tra me e Luca continua fino a quando il testo e la sua ipotesi scenica ci
sembrano ottimali: a questo punto comincio le prove.
Con Enrico Caravita, l’attore protagonista dell’evento, comincio
a costruire una creatura che dell’oro ne ha fatto una lucida follia,
una maniacalità dal sapore religioso che lambisce la pazzia. Faccio
indossare infatti ad Enrico una veste bianca, lunga, un po’ tra un
abito sacerdotale e una camicia di forza. Lui, il protagonista-personaggio,
è consapevole che riceverà ospiti, che sarà fulcro
dell’osservazione dei visitatori. Su tale considerazione costruisco
la scena sottolineando proprio questo aspetto, cioè la presenza di
estranei al soliloquio del personaggio. Così nasce l’idea di
usare un walkman su cui la creatura in bianco conserva memorie e racconti,
pronti ad essere ogni volta riavvolti col rewind e riascoltati, rimessi
in circolazione per le orecchie dei visitatori. Rinchiuso nella nicchia
dorata di Mario Botta, con uno sfondo completamente d’oro interrotto
solo dal quadro di Dürrenmatt “L’ultima assemblea generale
della Banca federale”, Enrico lascia sfogo al delirio delle parole,
invocando-evocando un oro santo, un oro-essenza capace di donare felicità.
La ricchezza non c’entra, non c’entra più: l’oro
si pone come algida essenza unica in grado di salvaguardare il protagonista.
Chi da essa si discosta, muore. È la fine infatti dei colleghi banchieri
rappresentati nel quadro e citati in scena come noiosi colleghi: impiccati
ai lampadari, seduti con pistole alle tempie, sbattuti a terra spezzati
e come fantocci disossati.
La verità, se in tale delirio-confessione-preghiera di verità
si può parlare, l’unica verità appare, lucida e sferzante
come l’oro, nella maschera che il protagonista indossa. Una maschera
dorata che gli taglia il viso a metà, che riflette il luccichio del
totem dorato - unica presenza in scena oltre all’attore, omaggio a
Gold di Felice Nittolo, mosaicista e scultore - e al totem rimanda colore
e calore. La verità sfugge, restano solo racconti impressi sul walkman;
la voce e i gesti ormai sono delirio, follia impressa negli occhi di chi
guarda. Resta un’essenza vivida, un’odore mentale, una forma
dell’anima. Oro.
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