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Rubrica di enigmistica e retorica con varie e divagazioni sul linguaggio.

In questo numero una riflessione sul "giocolinguaggio" in Wittgenstein, sorta di anticipazione di quello che sarà il tema del prossimo numero della rivista.

     

   

Giochi linguistici in L.Wittgenstein

di Loretta Masotti

Il linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più. - Ludwig Wittgenstein.

Se dovessimo prendere in esame il gioco esclusivamente dal punto di vista della sua spontaneità, come attività che si esercita solo in vista di se stessa, quindi strutturata ed autotelica, svincolata da fini o regole, non potremmo parlare dei “giochi linguistici” di L. Wittgenstein.
Eppure, quando il filosofo ci introduce al tema del gioco, lo fa in modo tale da creare quasi una sorta di disorientamento in chi lo ascolta con pretese definitorie: “Si può dire che il concetto di gioco è un concetto dai contorni sfumati. Ma un concetto sfumato è davvero un concetto? Una fotografia sfocata è davvero il ritratto di una persona? È sempre possibile sostituire vantaggiosamente un’immagine sfocata con una nitida? Spesso non è l’immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?"
Per Wittgenstein un’attività assolutamente spontanea e libera non esiste, per cui, comunque lo definiamo, il gioco avrà sempre restrizioni e regole che ne delimitano le possibilità. Anche in un gioco semplice ed individuale esistono delle restrizioni: non si può ad esempio giocare con un cubo come con una palla. Ma non si può seguire una regola da soli: essa deve essere controllata ed il controllo deve essere pubblico. In questo modo le classiche contrapposizioni tra gioco (libero) e lavoro (costrittivo), homo ludens ed homo faber, andrebbero per lo meno messe in discussione nelle loro argomentazioni classiche. Per alcuni (Bateson, Caillois) il gioco sembra essere il paradigma della sregolazione. Per essi il gioco viene identificato collo slancio, l’eccitazione, il dinamismo infantile, e dunque agirebbe solo come esperienza disordinante. Anche Marcuse in “Eros e civiltà” parla di libertà dal lavoro o addirittura di trasformazione del lavoro in gioco, e il gioco si connette ad una dimensione di liberazione delle facoltà umane (emancipazione dall’alienazione lavorativa ed attuazione di un nuovo rapporto uomo-natura). Giocare per il filosofo austriaco è invece una attività umana di tipo sociale. In questo si sente l’influsso dei suoi studi antropologici (Frazer, Malinowski, Sapir) in cui il linguaggio veniva considerato non come una realtà autonoma ma come una produzione sociale. “Seguire una regola è un’abitudine, una prassi, e credere di seguire una regola non è seguire una regola: la regola è la stessa procedura operativa che costituisce l’uniformità di una forma di vita umana”.
Anche J.Huizinga in Homo ludens sostiene che ogni gioco ha le sue regole e non appena si trasgrediscono le regole il mondo del gioco crolla. Il giocatore che si oppone alle regole o vi si sottrae è un guastafeste. L’idea della lealtà è inerente al gioco. Sottraendosi al gioco questi svela la relatività e la fragilità di quel mondo-del-gioco in cui si era provvisoriamente rinchiuso con gli altri. Egli toglie al gioco l’illusione, l’inlusio, espressione pregna di significato. Perciò egli deve essere annientato; giacchè minaccia l’esistenza della comunità giocante. Ma ugualmente il gioco viene definito un atto libero che può in qualsiasi momento essere differito o non avere luogo. Non è imposto da una necessità fisica o da un dovere morale. Emerge dunque, come nota Umberto Eco, la mancata distinzione in Huizinga tra il gioco inteso come spontanea e libera attività ludica individuata dal verbo inglese to play, ed il gioco regolamentato, riferibile all’altro verbo inglese to game. In Wittgenstein si va oltre, in quanto la sua concezione del gioco rientra solo nel campo semantico indicato dal termine game. Siamo molto lontani dal gioco come esperienza del fanciullo che gioca con la realtà di nietzschiana memoria (Così parlò Zarathustra) e che si propone come monito per l’uomo moderno, che deve imparare ad ascoltare nuovamente il bambino che è in lui. “Noi pensiamo che la favola ed il gioco appartengano alla fanciullezza, miopi che siamo! Come se potessimo vivere, in una qualsiasi età, senza favola e gioco” (Umano troppo umano).
Nelle Ricerche filosofiche il linguaggio è un insieme di giochi linguistici, ossia di attività sociali di comunicazione. Non c’è più un linguaggio perfetto, come nel Tractatus, il linguaggio raffigurativo (teoria speculare) è solo uno tra gli infiniti linguaggi possibili e “parlare un linguaggio fa parte di un’attività o di una forma di vita". Quindi se il linguaggio non è più fondato oggettivamente, lo è intersoggettivamente, in quanto trae il suo significato da una forma di vita che accomuna un gruppo sociale. Il linguaggio non si limita a descrivere la realtà, la interpreta anche. Il mondo non è più il mio, ma diventa il nostro mondo. Al solipsismo linguistico del Tractatus (i limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio) si sostituisce una prospettiva sociale in cui potremmo dire che i limiti del nostro mondo sono i limiti del nostro linguaggio in quanto il nuovo punto di vista non è nel mondo ma guarda il mondo. “L’uomo - diceva Wittgenstein nel 1929 in una conversazione a casa di Schlick - ha l’impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio. Pensate per esempio alla meraviglia che qualcosa esista. La meraviglia non può essere espressa nella forma di una domanda, e non vi è neppure alcuna risposta. Tutto ciò che vorremmo dire può, a priori, essere solo non senso. Tuttavia noi ci avventiamo contro i limiti del linguaggio. Questo avventarci contro i limiti del linguaggio è l’etica”. Ma emerge un problema: è possibile un linguaggio privato (non un soliloquio, un parlare tra sè e sè, ma un linguaggio in grado di riferirsi a ciò di cui solo chi parla può avere conoscenza) in cui usare le parole per dare un nome alle nostre sensazioni più intime in modo che nessun altro le possa intendere? Secondo Wittgenstein questo non è possibile, anche il nostro linguaggio delle sensazioni, che usa termini come dolore è intrinsecamente legato a fenomeni sociali pubblici. Le sofferenze infatti sorgono in certi tipi di situazioni e producono certi tipi di comportamento: solo per questo noi possiamo parlare della sofferenza. Perchè un linguaggio significhi qualcosa il suo uso deve seguire determinate regole inevitabilmente sociali. Wittgenstein non vuole dunque assolutamente negare l’esistenza di esperienze private : il problema è di altra natura. Non si tratta di fare un’indagine sulla nozione di soggetto o di coscienza, ma il problema che interessa è di natura essenzialmente linguistica e riguarda lo studio delle espressioni attraverso le quali esprimiamo esperienze private. La stessa espressione “linguaggio privato” è grammaticalmente illogica come se dicessimo “sul sole sono le cinque”: ma se suppongo che uno provi dolore, suppongo semplicemente che abbia la stessa cosa che anch’io ho avuto tante volte. Questo non ci porta più in là. È come se dicessi: “Tu certo sai che cosa vuol dire che sul sole sono le cinque”. Vuole appunto dire che lì si ha la stessa ora che si ha qui, quando qui sono le cinque. Qui la spiegazione basata sul concetto di eguaglianza non funziona. Infatti io so che le cinque qui si possono chiamare la stessa ora che le cinque là, ma non so in quale caso si debba parlare di una eguaglianza d’ora qui e là. Un processo interno ha bisogno di criteri esterni.
Allora dire che l’essenza è espressa nella grammatica significa che essa non è più nelle cose ma nel modo di vederle espresse dal linguaggio. Wittgenstein facendo queste considerazioni vuole prendere le distanze da una concezione della conoscenza che da Descartes a Beltrand Russel (La conoscenza del mondo esterno) viene impostata a partire dalle proprie sensazioni isolate da cui poi si ricaverebbe la costruzione del mondo esterno. Non si può separare il linguaggio dalle sensazioni della vita reale perché, come dice il filosofo austriaco, così si metterebbe il carro davanti ai buoi. Il suo anticartesianesimo in particolare si fonda sul rifiuto di una concezione della conoscenza che parta dall’idea di un soggetto isolato, solo colle sue sensazioni.
Compito della filosofia è analizzare la grammatica di una parola o di un enunciato, ossia le regole che ne governano l’uso all’interno dei vari giochi linguistici. “Le parole sono come strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una terraglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. Tutti i giochi linguistici sono legati tra loro da somiglianze di famiglia nel senso che essi non hanno affatto in comune qualcosa ma sono imparentati l’uno con l’altro in modi differenti„. Tra i giochi di scacchiera, quelli di palla, quelli di carte vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda come nei legami di parentela. La filosofia si limita a metterci tutto davanti e non spiega e non deduce nulla. I problemi filosofici sorgono quando un linguaggio fa vacanza. Essi si risolvono dissolvendoli. Quale è il tuo scopo in filosofia? Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola.
I problemi di cui qui si parla non sono quelli dei filosofi ma quelli insiti nel nostro linguaggio quotidiano in cui ci troviamo spesso immersi e da cui non sappiamo liberarci anche e forse proprio perchè li abbiamo sempre sotto agli occhi. Essi si presentano nella forma:”Non mi raccapezzo”.
Il linguaggio incanta, o, per meglio dire, strega il nostro intelletto, spesso gira a vuoto.
La filosofia assume una funzione eminentemente terapeutica, liberandoci dalle immagini della realtà che noi stessi ci costruiamo e che ci tengono prigionieri, dagli ostacoli intellettuali derivati dalla nostra mancata comprensione di come il linguaggio realmente funzioni. Anche se Wittgenstein aveva molte obiezioni nei confronti di Freud, o meglio della psicologia (“Ritengo la psicologia una perdita di tempo. Ma quando mi capitò di leggere qualcosa di Freud, fui veramente sorpreso: ecco uno che aveva qualcosa da dire”) è stato fatto spesso un confronto tra la concezione della filosofia dell’ultimo Wittgenstein e la psicoanalisi freudiana. La psicoanalisi intende liberare il soggetto nevrotico portando a livello di coscienza impulsi repressi così come la filosofia vuole rimuovere i blocchi mentali facendo rendere cosciente l’individuo del cattivo uso che fa del linguaggio, poichè il filosofo tratta una questione come una malattia. Il pensiero non è dunque più il modo corretto di fare filosofia ed un gioco si gioca e non si teorizza. Ma se il compito della filosofia, il gioco dei giochi, è quello di dissolvere i problemi, in ultima istanza la filosofia dissolverà se stessa.

       
     

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