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Rubrica di cose "terrene". | |||||||||
LA TEXTURA DEL TEMPO di Chiara Lagani |
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I - ipotesi ARRIVO MONT ROUX TROIS CYGNES LUNEDÍ ORADICENA VOGLIO CHE MI TELEGRAFI FRANCAMENTE SE LA DATA E TUTTO IL TRALALÀ NON VANNO BENE - ADA DARDIS Ricevuto il cablogramma di Ada, nella quarta parte del romanzo (Ada
o ardore, V. Nabokov), Van Veen si mette precipitosamente in viaggio.
Nel corso del viaggio Van lavora al suo trattato sul tempo, una specie
di novella, unindagine sulla sostanza impalpabile, con metafore
illustrative sempre più fitte, che edificano molto gradualmente
una storia damore logica, dal passato al presente, capace di fiorire
come una storia concreta, e di annullare poi, sempre per gradi, ogni analogia,
fino a disintegrarsi di nuovo in blanda astrazione. Van cerca di minimizzare,
anzi, abolisce affatto, il concetto di direzione del tempo e ne descrive
invece la tessitura, il sentimento particolare che ne ha la coscienza
soggettiva. Attaccando lidea di tempo come direzione, dà
però al trattato la struttura formale di un viaggio, il suo stesso
viaggio: egli guida dissennatamente, attraverso la Svizzera, verso Ada,
che non vede da quasi ventanni. Le sue riflessioni sul tempo si
sviluppano in simbiotico intreccio con questo viaggio forsennato, le svolte
improvvise della strada, ogni furioso coup de volant corrispondono
a precise immagini mentali e ad altrettante curve del pensiero: nello
stesso tempo percettivo individuale posso fare marcia indietro nel Passato. II - per un testo sociale Quando, circa tre settimane fa, ho ricevuto una lettera di Goffredo Fofi, con alcune stimolanti questioni, tramite cui proponeva a Fanny & Alexander un pezzo per Lo Straniero (prendetene o no spunto per le vostre riflessioni), subito la mia attenzione è caduta su uno dei quesiti, che iniziava più o meno così: Il problema del testo: testo è logica sociale, sistema, essere in un contesto accettato e dialogarci. Se è vero che oggi non cè testo sociale, quale testo ha senso, come scrivere e per chi (basi, gusti, autori e lettori-spettatori di riferimento)? Per Fanny & Alexander, che è la compagnia che dieci anni fa ho fondato con Luigi de Angelis, scrivo testi che poi, spesso e volentieri, mi trovo anche a recitare in scena. Le due cose sono state finora indivise e indivisibili per me, vale a dire che la parola scritta è sempre e comunque stata anche parola recitata. Non so fino a che punto questo fatto condizioni il mio punto di vista sul problema del testo, perché solo di recente mi è capitato di desiderare lesperienza di una scrittura autonoma dalla scena, ma di fatto non lho ancora praticata. Credo che negli incunaboli del mio pensiero lidea stessa dello scrivere, lunica forse a cui mi senta intimamente legata, sia da sempre in qualche modo connessa alla drammatizzazione, alla rappresentazione in uno spazio vivo. E questo molto prima che nascesse in me lidea vera e propria di teatro. Da bambina leggevo quasi sempre ad alta voce, spesso davanti allo specchio. Ipotizzavo variazioni strutturali, mi divertivo a cambiare i finali delle storie, inventavo. Ci sono pagine bellissime in cui Nietzche pone proprio il problema della drammatizzazione della parola, pagine che in questi giorni, per maliziosa coincidenza, continuano a capitarmi sotto mano, da un lato aggrovigliate a pensieri alla rinfusa (asequenziali, per dirla con Nabokov) per la mia tesi di laurea, dallaltro in forma di citazioni, prodotte da Ezio Raimondi nel suo lucidissimo La retorica doggi, uscito di recente per i tipi de il Mulino: Leggere, leggere ad alta voce, fare unesposizione, esigono tre differenti forme di stile. Leggere ad alta voce è la maniera in cui la voce devessere elaborata con il più darte, perché deve supplire alla mancanza del gesto. Leggere, la maniera in cui lo stile devessere più realizzato, perché qui voce e gesto sono soppressi come modi despressione. Si potrebbe chiamare genere naturale, per esempio, quello della lettura a voce alta, se i gesti vi fossero realmente superflui e non avessero bisogno di essere surrogati da qualche cosa (leggere dietro un paravento): in unimmobilità assoluta in cui il corpo non dovesse muoversi. Le riflessioni sulla potenza drammatica del gesto e della voce sono tradizionalmente
retoriche (lo stesso Aristotele dedica il terzo libro della sua Retorica
alla stilistica e alla recitazione), ma trovo particolarmente affascinante
questultima immagine di immobilità assoluta del corpo, priva
di censure (leggere dietro ad un paravento), e la sua classificazione
come genere naturale, così irreale da essere appena postulata come
possibile. Il mostro è limplicita condizione dialogica di
qualunque testo, linevitabile sdoppiamento del punto di vista, ancora
una volta uno scentramento, unica condizione apparente di qualunque livello
comunicativo. Dunque, per tornare alla domanda di Goffredo Fofi, necessariamente,
il problema del testo, e in particolare del testo sociale, si pone come
problema retorico per eccellenza. Lo sviluppo staordinario della retorica costituisce una delle differenze specifiche tra Antichi e Moderni. Nei tempi moderni questarte è loggetto di un disprezzo generale e quando noi Moderni ne facciamo uso, il meglio che se ne possa fare non è altro che dilettantismo ed empirismo grossolano Nietzsche. Se dunque la retorica è un qualcosa di legato ad una società
precisa, ormai per sempre tramontata, cosa ne può sopravvivere
oggi? In regola generale il sentimento per il vero in sé è ora molto più sviluppato: ma la retorica ha radici in un popolo che viveva ancora in immagini mitiche e che non conosceva ancora il bisogno assoluto della fede storica; preferiva essere persuaso che non essere educato. Credo che il punto sia proprio questo. La perdita di un riferimento mitico come regno immaginale comune, opera come rimozione fondamentale ai fini di tutte le operazioni linguistiche che avvengono in un contesto sociale. Frustrando i diritti che quelle immagini hanno su di noi, ci allontaniamo dallunica realistica possibilità che abbiamo di testo sociale, di dialogo, di vera tensione agonistica del linguaggio. E questo è assolutamente evidente in teatro, ad esempio, in relazione alla grande maggioranza del pubblico, che ormai preferisce essere educata che persuasa, quando confessa di non avere capito niente, oppure quando lamenta la scarsa chiarezza o decifrabilità dellopera, quando parla di plagio per tutto quello che non può riconoscere veramente, e afferma di non andare a teatro per evitarsi tutte queste sofferenze. È la rinuncia anticipata alla più forte e umana retorica erotizzata del pensare in comune. Dunque se è vero che oggi non cè testo sociale, quale testo ha senso? E cioè: cè ancora unalternativa alla retorica teledemocratica oggi dominante nella politica, nella vita sociale, nella TV, e anche dilagante in certo tipo di teatro? Recentemente ho riletto un testo fondamentale che da anni porto con me, nel lavoro con Fanny & Alexander, ma questa volta, spinta dalla cogente scadenza di un esame universitario, me lo sono letto dun fiato e in lingua originale. Parlo della Retorica di Aristotele. È qui che si dà della retorica quella che sembra essere la ragione più forte di qualunque pratica veramente culturale, artistica, e teatrale: la facoltà di scoprire il mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto. La retorica non è cioé una scienza con contenuti specifici, ma uno strano luogo, con facoltà di prezioso strumento, di molteplice ma finita grandezza, in cui si vive e ci si misura con qualcosa di contraddittorio, conflittuale, in una dimensione pubblica, comunque sociale. È il luogo dove interessa essere persuasi, e persuadersi, senza una misura assoluta. Ovviamente una tale pratica implica una particolare integrità, una precisa etica individuale, come a dire che nel suo rapporto con il mondo ognuno deve decidersi prima o poi e in via di principio pro o contro ad un siffatto uso del linguaggio. Inoltre questo tipo di retorica, di testo sociale, muove determinate forze interiori, passioni, per cui chi parla stabilisce sempre un legame emotivo con chi ascolta, sulla base di un con senso che, in questo mondo del voler persuadersi delle cose, equivale a quella comune immagine mitica che Nietzsche vede ormai frantumata. Siamo dunque al punto di partenza? Se il testo sociale non sembra più esistere, allora che testo ha senso? Mi viene da rispondere istintivamente che se questo tipo di testo sociale non può esistere, per me nessun altro tipo di testo ha senso, e nemmeno nessunaltra pratica teatrale. Ricordo di aver scritto una volta, su invito di Luca Scarlini, a proposito del senso e del peso della tradizione per un gruppo teatrale come il mio, qualcosa riguardo al comportamento eroico. Io penso che la vera pratica teatrale sia oggi una pratica eroica, in questo senso e in relazione a questo tipo di perdite: Riconoscere schiettamente il carattere astratto del gesto eroico, il gesto con cui leroe o leroina discendono nel cuore dellarchetipo e lo vedono nudo, schietto e semplicissimo, è riconscere il mostro, sorprenderlo per la prima volta. Il procedimento eroico è un gesto schiettamente retorico. Leroe si avvale di trucchi linguistici, di sotterfugi visivi, di stratagemmi psicomagici per procurarsi lenergia di cui ha bisogno. Se non trova trucchi efficienti, si avvarrà semplicemente della sua muscolatura. Leroe è consanguineo allarchetipo e al lavoro della tradizione, perché non è che una forma di più antica data dello stesso imperituro io, evocatore danime, creatore instancabile di anime. (Culto delle anime fede nell'immortalità e altre tradizioni presso Fanny & Alexander) Allora probabilmente come scrivere e per chi deve diventare oggi un qualcosa di sempre più radicale ed eroico, occorre approfondire lidea di percorso individuale, di viaggio in solitudine, ipotizzando la commozione, cioé il movimento delle forze interiori e delle emozioni e dunque il problema delluditorio, in maniere nuove, che tengano conto della necessità e della realtà di un personale percorso. Sotto questa luce forse sarà possibile scoprire ulteriori caratteristiche del proprio testo sociale, della propria realistica possibilità di esistere, con tutte le difficoltà che corrispondono ai sistemi comunicativi contemporanei- Raimondi Dunque tenendo conto di un percorso personale, mi limito ora ad accennare
ad alcuni punti che si sono rivelati fondamentali in relazione alleroico
tentativo di testo sociale per Fanny & Alexander - tanto per definire
con piglio epico, quella che è semplicemente una sorta di appunto
di viaggio passato, presente e futuro, attraverso svariati luoghi ardisiani
(Ardis Hall, già mitica magione romanzesca, è anche il nome
della sede-teatro di Fanny & Alexander). È unimpresa bizzarra questo tentativo di determinare la natura di qualcosa che consiste di fasi fantomatiche. Tuttavia sono certo che il mio lettore, che ora aggrotta le sopracciglia, sarà daccordo con me che non vi è nulla di più splendido del pensiero solitario, e che il pensiero solitario deve affrontare il suo cammino, magari al volante di una sensibile e ben bilanciata automibile di produzione greca (...) - Nabokov III - passato personale e passato atavico Il Passato è un costante accumulo di immagini. Queste immagini, di solito, non ci dicono niente della trama di tempo in cui sono intessute, né sulla verità. Il tempo è un fluido medium della cultura delle metafore - Nabokov Uno dei problemi su cui si è focalizzata la mia attenzione negli
ultimi anni di lavoro, per quello che riguarda il pensiero sulle strutture
testuali degli spettacoli, è stato il rapporto tra finzione, vita
reale, e immagini mitiche di riferimento: che tipo di alchimia può
esistere tra queste tre dimensioni se portate alle estreme conseguenze?
E il testo che ne deriva è sempre un testo di tipo narrativo? Posso cominciare "il mio cuore messo a nudo" non importa dove, non importa come, e continuarlo giorno per giorno, secondo lispirazione del giorno e della circostanza, purché lispirazione sia viva - Baudelaire Questo tipo di procedimento genera dei grossi nuclei di lavoro, delle macrostrutture, senza però disegnare architetture già definite. Si crea così un corpo di testo composito, variamente allusivo, che va poi tradotto in drammaturgia vera e propria. Questo corpo, strano e straordinario, è un racconto e al contempo un luogo, rischioso, di relazioni, di invenzioni, di memorie. Coincide con un corpo privato, personale. Un dolore, anche, privato. Non credo che si possa, o che sia interessante, tirar fuori un dolore privato e servirsene. Bisogna trovare un meccanismo, un trucco, raccontare una storia diversa nella quale poter riversare il dolore privato. Proveremo "il mio cuore messo a nudo" attraverso una storia raccontata, una fiction. In realtà questo è un po il principio dellipnosi, ma vedremo il mio cuore messo a nudo A livello retorico chi parla, e soprtattutto chi parla di sé, deve saper ricordare, deve possedere una memoria dellimmaginario, in relazione ad un uditorio, ad una collettività, altrimenti nessuno lo comprenderà. Della topica teatrale, ha parlato una volta Luigi de Angelis in un suo articolo, sempre su Lo Straniero, in quanto possibilità immaginifica del topos, custodia della metamorfosi, contro la sua deteriorazione in stereotipo. Il topos è una metafora e la metafora è metamorfosi. Dunque il rapporto di rappresentazione di una propria realtà (verità), passa attraverso il filtro della metafora, e in primo luogo a livello linguistico; eppure la metafora, annota Nietzsche, non vive di verità, ma di assenza di verità. Ma allora? Quando sullorizzonte di un riferimento mitico, di una temporalità apersonale e atavica, si vuole andare a forzare un proprio nucleo privato, un passato personale, occorre falsificarlo al punto che esso diventa autentico. Perché, sempre a livello retorico, chi agisce e chi parla, chi porta un testo, deve anche, ricordando, saper dimenticare, avvalersi di tutte le potenzialità della tabula rasa che gli si para innanzi. Conservare, e buttare via. Radicalizzare certi tipi di sentimento. Il rischio, è evidente, è quello della parziale confusione tra reale e irreale, rischio che porta però con sé una forza strana, capace di modificare le strutture del pensiero. Dunque da tale procedimento può derivare ovviamente un racconto, un testo narrativo, ma può anche nascere un testo assolutamente lirico, che procede per pure immagini, a patto che sia rispettata questa condizione: che sempre la struttura testuale sia disegnata in modo da incidere sulla percezione facendo leva sullelemento mitico e rendendo irriconoscibile laltro elemento, quello problematico, personale, poiché lo esaurisce. È una pratica di testo sociale che mette in atto una battaglia contro le formule, le immagini ridotte a stereotipo, tentando di riempirle di nuovi, personali contenuti, di per sé inessenziali ai fini della realizzazione dell opera darte in generale, ma fondamentali ai fini della sua autenticità. Autentico dice Raimondi - è la battaglia continua contro linautentico. IV - presente deliberato e presente specioso Il ritmo: non i battiti cadenzati del ritmo, ma lo spazio tra due battiti, lintervallo grigio tra due colpi neri: il Tenero Intervallo - Nabokov Altra questione connessa allidea di testo sociale è quella
del rapporto tra la parola e limmagine, così connesso alla
natura stessa della rappresentazione teatrale, e così condizionante
ai fini delluso di una qualunque forma di testo in teatro. V - futuro ciarlatano Un ciarlatano alla corte di Cronos, un non-ancora che potrebbe non venire mai - Nabokov Infine, sempre in relazione al problema del testo sociale, vorrei mettermi dal punto di vista di chi finora ho ipotizzato essere dallaltra parte, e cioé pensare semplicemente alle volte in cui io stessa mi reco a teatro, oppure prendo un testo per leggermelo, gioco cioé il ruolo dello spettatore-lettore. Ciò a cui assisto, è ovvio, manifesta allora solo una piccola porzione di tutto quello che il testo rappresenta nella sua totalità per chi lo vive o lo ha vissuto in prima persona. Lestraneo, perché allora si è, fino ad un certo punto, estranei, deve trovare il modo di entrare in una delicata dinamica di giochi, di significati nascosti, di trame invisibili, che si determinano solo allinterno, tra i protagonisti e latto, ma anche, ad un certo punto, se si trova un ingresso, tra il pubblico e ciò che accade. Lidea stessa di un pubblico riporta prepotentemente a quella di testo sociale. Cè sempre un destinatario da tener presente, un sistema di aspettative di cui tener conto. In un intervento a proposito del gusto, nel convegno sulla critica che F&A ha organizzato con Stefeno Tomassini (Cervia, 1999), tentavamo di porre la questione del giudizio in termini di forze affettive, cioé un modello desistenza capace di porsi infinite domande. Non si postulava cioé la preesistenza di nuclei oggettivi di piacere validi per tutti, o per una maggioranza di individui, ma si preferiva pensare in termini più ampi, senza ridurre la relazione col pubblico a una sorta di sua ombra sullopera, o allombra dellopera su di lui. Allo stesso modo, mi picerebbe porre il problema del testo sociale in termini più ampi, magari come quesito futuro, ulteriore appunto da stendere prima o poi, se sarà possibile, senza per forza programmarlo già come terzo pannello della tessitura-textura. Vorrei, alla vigilia di un lavoro di Fanny & Alexander sul cinema, e cioé un altro tipo di lavoro sullimmagine, che intrattiene altri livelli retorici con un possibile testo, ipotizzare che testo possa essere qualcosa daltro e di più di quello che finora si è detto. Se è vero cioé che è dobbligo entrare in questo gioco retorico altamente specializzato, molto tecnico, per chiunque voglia produrre un testo sociale (poiché anche chi lo subisce ci entra, altrimenti non subirebbe, sarebbe semplicemente fuori, e questo in condizioni di almeno media terreità non è dato), tanto vale divertirsi con lordine delle grandezze, alzare il tiro, innalzare il tiro. Si potrebbe cioé, come afferma Geerz, e Raimondi con lui estendere lidea di testo al di là del materiale scritto, e perfino al di là di quello verbale. Questa, continuano i due, non è poi una grande novità. Già il Medioevo suggeriva una forma teorica di interpretatio naturae, Spinoza. Ma lidea resta potenziale. Si potrebbe trattare come testo qualunque forma, un rito, un opera dellimmaginazione, brandelli di vita stessi. Si potrebbe trattare come testo un combattimento fra galli, ad esempio, e si porrebbe in evidenza una sua caratteristica che il trattarlo come rito o come passatempo, le due alternative più ovvie, tenderebbero a mettere in ombra: il suo uso dellemozione ai fini di una conoscenza Geerze. Forse questa è una possibile ipotesi futura di testo sociale, rischiosa certo, poiché alla fine si può anche esserne truffati: totalmente, emblematicamente annichiliti. VI - alcune conclusioni Il caso del commentatore fortunato, come accennavo allinizio, è appunto uno splendido caso letterario della morte futura del più serio e accanito ricercatore di senso, al centro di unemblematica traduzione in testo, in commento, della vita stessa. Giorgio Manganelli inserisce questa strana mentita detective-story al centro di Nuovo Commento. Si tratta di un commentatore che, trovato in un quotidiano un necrologio, sconvolto dalla ferocia aggettivale dello scritto ( venuto subitamente a mancare il cuore fiducioso di Federico H., ne danno annuncio la moglie affranta, la figlia in lacrime, la sorella costernata), viene rapito dalla rovinosa irrinunciabile sete di ricerca cui lo porta il commento di suddetto necrologio. Si consuma dal desiderio di rintracciare, individuare segni, creare contatti fra tutte le intraviste stranezze. Non può pensare ad altro. Contatta la moglie, si perde nelle ambagie innumerevoli dei tre aggettivi incarnati ora in donne, accetta di sposare la vedova per approfondire la ricerca, conquista la postazione privilegiata dello studio stesso di Federico, finché la storia bruscamente si interrompe, ed egli è illuminato dalla visione lampante: quel necrologio era per lui partecipazione di nozze (la moglie è affranta, la figlia in lacrime, la sorella costernata), il suo alacre ed ossessivo lavoro di ricerca in sì luttuoso contesto determinò gli aggettivi stessi, quel necrologio era il suo fin dal principio e suo era il cuore fiducioso (condotto finalmente ad una conclusione, trascrivo e schedo la mia morte). Se è vero che non esiste più testo sociale, ma che nessuna operazione culturale, né la vita stessa ha significato senza, allora la questione si pone in tutta la sua durezza, e, proprio in sede conclusiva, viene da lasciare a metà una frase, come fa Ada, dopo il racconto di Van sulla sua idea di textura: Mi chiedo, disse Ada, mi chiedo se queste scoperte valgano più di una manciata di vetri colorati. Noi possiamo conoscere qualcosa giorno per giorno, possiamo conoscere qualcosa. Ma non potremo mai conoscere tutto questo. I nostri sensi, non ne sono capaci. È come... |
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