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Esistevano soltanto al plurale, arrivavano perfino con lo stesso mucchietto di lettere rosse: “e mando in dono un cuore di gigli blu…”.
Vi bruciava il medesimo occhio, verso terra si abbassava la medesima palpebra bruna.
Avevano anche lo stesso nome, e neanche un nome, ma un aspetto, e dietro le spalle – Dorotea e Cipresso.
Il loro teatrino era proprio un teatrino, non una casa, perché la casa era invisibile dietro a tutta quella boscaglia di cipressi.
Quando entravi, gli occhi, sconvolti da tutta quella bellezza e tutto quel rosso, soprattutto del ribes, non notavano neanche quella tettoia di ferro grigio, non la inquadravano, come le proprie sopracciglia. Non si parlava mai della casa di Dorotea e Cipresso, soltanto del giardino di Dorotea, delle sue rose rosse; Il giardino dalle rose rosse si mangiava la casa.
Se allora mi avessero chiesto che cosa facevano Cipresso e Dorotea in quel giardino, io senza esitare, avrei detto: “Passeggiano e mangiano le bacche”.
Ma ancora, a proposito dell’ingresso. Era un ingresso in un altro regno, l’ingresso stesso era un altro regno, che si allungava per tutta la casa, se così la si può chiamare, ma chiamarla così non si può, perché a sinistra all’infuori della loro siepe interminabile non c’era nulla, e a destra…
Non era un ingresso, ma un’uscita, di tutti gli ospiti, di tutti gli altri bambini.
Più di tutto amavo quell’uscita, il pendio che conduce al giardino dei cipressi, dietro il quale – ne sono sicura – le bacche maturano tutte in una volta, le fragole, ad esempio, insieme alle sorbe, dietro il quale è sempre l’estate dei morti, l’estate più rossa e più dolce, basterebbe entrarvi (ma io non ho mai potuto) et tra le mani hai tutto in una volta: le fragole, e le ciliegie, e il ribes, e soprattutto, il sambuco!
Dorotea e Cipresso erano una sorta di calamità familiare, di fatalità, ereditata insieme alla loro casa. Fuori da quella casa non si dicevano nulla, né mai sarebbe saltato in mente di affermare con la voce la mia presenza. Talvolta Cipresso cantava e Dorotea gli faceva eco, e non mi stupiva affatto che lei cantasse con voce piuttosto maschile e lui – più da donna, sottile, non mi stupiva perché nulla stupiva i figli degli Cvetaev e perché quella voce l’avevo sognata a volte.
“Marina, Dorotea e Cipresso hanno portato i fragoloni… Volete che li prenda?”
stavo sull’uscio di quella porta, allungando appena il collo. Staccandomi, infine, da quel giacimento di fragole, incontro lo sguardo di Dorotea, appena chino, solo di poco sollevato da terra. “Ahi, Marina-fragolina, perché sei così verde? Non ti sei ripresa?”
Avrei bevuto con loro il tè da un’enorme tazza variopinta, e con loro morsicato i confetti con i denti, con loro sarei…
Io vorrei giacere nel cimitero di Fanny & Alexander, sotto il cespuglio di sambuco, in una di quelle tombe con la colomba d’argento, dove crescono le fragole più rosse e più grosse delle nostre parti.
Ma se ciò è irrealizzabile, se solo a me non è dato di giacere là, e addirittura non esiste più quel cimitero, allora vorrei che nel giardino delle rose rosse, che attraversavo per andare da loro, ponessero una lapide:
QUI AVREBBE VOLUTO GIACERE
MARINA CVETAEVA + |