Spettacoli - Alice vietato > 18 anni
       
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      La bambina e il mostro
      di Chiara Lagani e Virginiasofia Casadio
       
     

Mi sono immaginato mentre mi mettevo alle spalle di un autore: prendevo un bambino e glielo davo. Questo bambino era il suo, ma era un mostro. È importante che fosse il suo, perché doveva fargli dire esattamente quello che io volevo, ma è anche importante che fosse un mostro, perché doveva attraversare ogni forma di travisamento, scandalo, rottura, emissione segreta – G. Deleuze


CHIARA: Alice vietato >18 anni è una storia di viaggio, di sforzo, di pazienza. Nella sua qualità di viaggio questo sforzo assomiglia ad un cerchio, per me. Questo lavoro non ha per me precise geometrie: abolito lo spazio, abolite le direzioni, per la prima volta sento di potermelo permettere. C’è solo questo grande movimento, circolare proprio, un cerchio in cui posso camminare a lungo, ma in cui in pochi passi posso anche improvvisamente toccare qualcos’altro, di più scuro e grave.
Per tutto il tempo ho avuto questa sensazione di piacevole passeggiata nella penombra, nelle nebbie dei fumi che imperversano nell’auletta-scena-gomma in cui Virginia sta chiusa; là davanti, proprio davanti a me, c’era una piccola manina, la mano che conduce senza condurre, che apre un gesto e una via già molte volte toccata, molte volte sfiorata.
Lavorare con Virginia è per me una strana alchimia di languori, nostalgie e corrispondenze: qualcosa che sta tra lo scoprire e il lasciarsi scoprire, il portare segni e figure e il lasciarsene attribuire da lei o di fronte a lei. Tutto era proprio là, fin dal principio, fin dai goffi salti su un bianco materasso di gommapiuma, fino dai Ciarlestroni mandati a memoria e poi provati tra finti svenimenti: tutto era già là, ne sono sicura, ma sono altrettanto sicura che tutto solo oggi vi è veramente.
È bastato seguirla, questa strana, evanesce dodicenne, dagli occhi intagliati su un prezioso pallore, seguirla e andare di là, verso quell’oltre dello specchio, là, dove non sai mai davvero cosa c’è.

VIRGINIA: Là c’è una bambina che vede attraverso lo specchio, vede un altro mondo e allora cerca di entrarci: questo mondo è fatto come una scacchiera e lo scopo della bambina è certo diventare la regina là. Quando entra, poi, succedono tante cose che lei non sempre capisce, ma alla fine credo che ce la faccia. Almeno, nel suo sogno, ce la fa.

CHIARA: Il destino della bambina viene tracciato fin dal principio in modo assolutamente preciso (da Regine Bianche e molto di più), ma non tale da trascurare la sua specifica natura: questo mostra, nel compimento stranamente leggero che proprio lei infine trova, quanto ci sia di volgare e frivolamente disonesto nell’affannato tentativo della pedagogia moderna, nei discorsi sulla “libera espansione del carattere, sul trauma dell’autorità, sull’imperativo della promiscuità coatta con altri bambini”.
Virginia qui è sola, assolutamente sola, assolutamente priva di indicazioni psicologiche, assolutamente priva di maestre e maestri (tranne quella gigantessa che campeggia in scena accanto a lei, che è poi una falsa maestra e un vero mostro), assolutamente priva di falsa libertà, già mescolata alla cruda aria del mondo, eppure reclusa, in una gabbia gommosa, bambina giocosa e ferale.

VIRGINIA: Io non sono una bambina.

VIRGINIA: Di fatto quel che succede è questo. Arrivo lì, e c’è qualcuno che mi dice le cose che devo dire, io le ripeto, ma con le mie parole… no, veramente non proprio del tutto con le mie e nemmeno proprio del tutto con quelle che mi dicono gli altri… poi qualcuno mi dice cosa devo fare.
C’è sempre qualcuno che racconta una storia e tu poi fai delle cose.
Riguardo alle cose da ricordare, invece, quelle non mi fanno paura: io ho molta memoria. All’inizio però ero molto imbarazzata. Mi divertivo ma non trovavo le parole, non uscivano da lì. Poi mi sono abituata, conoscevo di più tutto e tutti, le parole si infilavano meglio, conoscevo più anche quella creatura là, che dovevo essere io nello spettacolo. Ma non è stato semplice da subito.

CHIARA: Le parole di Alice non sono affatto semplici da subito. Alice parla una lingua quasi incorrotta, potremmo dire: la deforma fino all’inverosimile eppure mantiene sempre quell’ordine esatto, liturgico delle parole. Anche il suo spazio è qualcosa di nient’affatto semplice: è tutto fatto di divieti, di confini invisibili tra le cose, simili ai lacci della metrica alle rime dure del senso e del nonsenso.
C’è un nesso formidabile che avvince parola e spazio fisico qui, la stessa identica legge li governa, la legge della lettera e del capovolgimento. Occorre molta fede ad Alice per riconoscere la forma delle sue parole nel caos di ciò che le accade veramente. La memoria vi insiste a volte sino al doloroso tormento.
Ho un’immagine di Virginia accovacciata, che si abbraccia le ginocchia, in silenzio. Attende che le parole si sistemino nella sua testa, fa un grande sforzo per dare alle parole questo ordine che sente esatto, e dice: “aspetta, aspetta un attimo prima di farmi cominciare”. Poi inizia la scena.
Abbiamo lavorato così, a canovaccio, esperienza inedita per me, tra silenzi, attese, e scoppi improvvisi, grappoli di parole fiorite d’un tratto nel culmine dello sforzo. Non ho mai scritto, per tutta la durata delle prove non ho avuto la necessità, così familiare per me, di fermare qualcosa con la scrittura. La scrittura come esigenza tecnica, e finale, in presenza di una strana parola o lingua perfetta che nell’atto di scriverla si cancella. Come posso scriverle queste parole?

VIRGINIA: Io penso che le parole più belle sono quelle scritte. Io scrivo tutto il giorno messaggi sms. Scrivere così vuol dire non vedere la persona in faccia, mentre le parli. È anche uno svantaggio, a volte. Ma ti senti protetto. Alice non scrive per questo motivo, però. Lei scrive per sottolineare la stranezza delle parole, forse. Ad esempio, nella scena con Humpty Dumpty: lui parla e lei scrive alcune delle sue strane parole sul muro. Le piace molto scrivere. Anche a me piace molto scrivere.

CHIARA: Ci sono tante fotografie di Virginia che tappezzano Ravenna. Il manifesto trittico di Alice vietato>18 anni.

VIRGINIA: Ah, le fotografie. Questa è una cosa molto personale, non so se... Quella in cui sono di fronte è bella, ma sono molto scura da una parte e poi si vedono troppo i nei, il che non mi piace. In una di quelle di profilo si vede l’occhio, troppo. L’altra lascia vedere meno difetti. È la migliore.

CHIARA: Ho visto un residuo di manifesto-trittico appeso al muro di una strada, a Ravenna: è già pallido, ingiallito. Sono passati svariati giorni dallo spettacolo, forse un mese. In questo mese sono successe molte cose tragiche. Eppure basta una mera fotografia, un’immagine semplice e trina, perché certi segni, geroglifici dorati, magari modesti, di presagito splendore, riacquistino di colpo lo spessore misterioso della stessa arcana presenza; un ordito di fili della Vergine teso dietro un groviglio selvatico e scintillante.
Ricordo la prima cosa che mi disse Enrico Fedrigoli, il fotografo che lavora con noi, sul trittico di Virginia: sembra una Madonna dolcissima, ma ha anche la durezza spietata del minatore, di chi scava il marmo. Solo per i “laici del ricordo” quella carta di pochi giorni è adesso ingiallita e consunta: tutto quel giallo è per me un condensato di luce, è tutti quei pomeriggi abbacinati, ombrosi e dolcemente disseminati di piccole spie, di modesti richiami, sussurri, messaggetti al telefonino, buchi della memoria, noia, scoramenti, merende gratificanti e compensatorie, voci assorte dentro uno spazio chiuso.

CHIARA: A volte mi chiedevo: chissà se ce la faremo, chissà se attraverseremo questo specchio, alla fine; entreremo in quelle stanze, in quei recessi tanto attesi e immaginati, fino dall’infanzia? Forse non al di là di quel nudo vetro, non io almeno, non al di là di quel velo d’acqua che talora scende sottile, e appanna la visione. Non io, ma forse lei può. Forse.
E, anche questa volta, è necessario dirlo? Non è il risveglio da un sogno a fermarci, mai, non è il sapere che stiamo solo provando uno spettacolo, con tutti i suoi conosciutissimi impigli e misteri, ma è ancora una volta quella sovrabbondanza, quasi mortale, felicità dello sguardo che incontra gli oggetti desiderati e così si appaga, senza possesso alcuno.
Allora, Virginia, facciamo finta che tu non riesci più a vedere, niente di niente, guarda un po’ in su, poi scendi piano, e ti addormenti dolcemente, dopo sarai di là. Te lo prometto.
Qualcuno ha condotto il sogno per mano, forse l’adulto potrà aprire la credenza più alta, ma, o incompetenza! “Dagli occhi bendati e luminosi dell’infanzia non può raggiungerci, in sogno, che uno sguardo tenue e filtrato”: eppure… che contentezza!

CHIARA: E cosa ne pensi degli oggetti che stanno là dentro?

VIRGINIA: Gli oggetti che sono in scena sono bellissimi. Mi piace molto la ventosa anche se mi dà fastidio che non si appiccichi più al pavimento come faceva prima. Gli ho staccato tutta la gomma nel fondo, quella che fa presa, una volta che ero nervosa. Mi piacciono anche le gambe di gomma del tavolo, perché si staccano e si riattaccano.

CHIARA: Da piccola ti piaceva travestirti.

VIRGINIA: Da piccola mi travestivo. Facevo delle scenette, delle storie. Mia mamma ha lavorato per qualche tempo in un negozio di antichità. Avevo trovato là un bastone, mi ero coperta con alcuni veli, vestita da vecchia, insomma. Avevo un contenitore per raccogliere l’elemosina. La gente rideva nel vedermi fare la carità.
Qui però mi sento proprio Alice. È simile a me, anch’io faccio certe cose che fa lei: sono curiosa, parlo spesso da sola. Faccio molte domande.

CHIARA: La bambina non ha nessuno. È orfana di chiunque. Incontra svariate creature che non sono di questo mondo. Ma più di tutti incontra il suo mostro. La bambina prova ogni giorno tre ore di fila, con pazienza, precisione, estrema competenza. Questa è l’avventura dello specchio. Ma la bambina non lo sa. Quand’è che il mostro si trasforma in qualcosa d’altro? Quando la sua presenza non è più necessaria, né come sorella, né come maestra, né come adulto che dà indicazioni di scena, né come creatura soprammercato.
La bambina resta sola, attenta, tutta tesa nello sforzo di ricordare una parola, quella della canzone mai più udita. La metamorfosi del mostro è quella della bambina, ed è del tutto ragionevole, a questo punto, che il mostro diventi da oroscopico caronte bambina lei stessa, ritorni indietro, nel lungo percorso piatto, immobile, appena trascorso. Per condurre a tale finale la bambina, il mostro-maestra sfidò la morte, lavorò giorno e notte con dedizione e dissennata follia, apparendo alla bambina reclusa, chiusa nell’egida dell’orrore e del ridicolo (“le addizioni le so fare… se mi dai un po’ di tempo… le sottrazioni assolutamente no!”), rischiò l’odio di lei che le era cara: discese agli Inferi e ve la fece discendere.
Non conviene dimenticare, però, che in origine fu proprio la bambina ad evocare il suo mostro, in sogno, da lontano, e forse senza nemmeno saperlo.

VIRGINIA: In quanto a mostri, vediamo: il cavaliere bianco è il personaggio più simpatico dello spettacolo. Tutti all’inizio mi trattano male, lui invece è buono. Il peggiore è Humpty Dumpty. Invece il Cavaliere no: lui mi dà una direzione, vuole dirmi come fare ad arrivare, anche se alla fine anche lui diventa cattivo. Non sopporto chi mi dice cosa devo fare.

CHIARA: In scena ti guardi riflessa nello specchio. Lo fai sempre. Nonostante il divieto di guardarsi.

VIRGINIA: Guardo come sono io, guardo il riflesso di come sembriamo io e Sara. Penso alla gente che mi guarda, mi fa strano pensare che hanno lo sguardo puntato su di noi. Non so se mi fa piacere. Con le persone che conosci è diverso. Certe volte mi fa piacere, altre mi crea imbarazzo. Per i parenti sono felice, non per gli amici; per le amiche sì, ma gli amici proprio no.

VIRGINIA: Adesso le scene mi piacciono un po’ tutte. Ma all’inizio, veramente, no. Quella con Kitty, ad esempio, non la sopportavo. Mi sembrava stupido ripetere sempre le stesse cose. Non mi sembrava possibile. Adesso mi piace molto. Non è che mi immagino che ci sia un gatto vero lì, da sgridare, penso che devo essere arrabbiata, molto arrabbiata e molto cattiva, ma non penso assolutamente di avere un gatto lì.

VIRGINIA: Virginia è Virginia in scena. Questo dicono le persone che mi conoscono. La mamma, la nonna, il babbo. Credo che sia un difetto, credo che vogliano dire che è un difetto. Quando reciti devi essere diverso dalla tua vita. Ma in questo caso Alice mi rispecchia un po’ veramente. Allora cosa credi che dovrei fare?

       
       
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      di Luigi de Angelis - 20.01.2003
       
     

Dopo pochi giorni dal debutto solo lampi e pensieri fugaci, alcune riflessioni.

Alice, la bambinetta, torna a visitarci, questa volta in maniera frontale, dopo essersi appropriata di tante nostre scene, in tanti anni (da Ponti in core a Requiem).

Bambina e bambino: il mito di Alice, ci insegna Jean-Jacques Lecercle in Alice nella collana Figures mithiques dell’editore Autrement, è quello dell’infanzia per eccellenza, perché la bambina, in epoca vittoriana, non va a scuola, ma riceve un’educazione da una governante, è come protetta dal mondo adulto, e la linea di demarcazione tra infanzia e adulti in lei è più marcata. In epoca vittoriana la scolarizzazione di stato avanza, ma riguarda solo i maschietti, che vengono considerati, per questo, già da piccoli, alla stregua di adulti. La bambina è protetta dal futuro sguardo desideroso dell’adulto, e proprio per questo è più libera, in questo recinto, di seguire i propri desideri. Rileggendo Alice nell’estate del 2002 con la preziosa annotazione di Gardener (Annotated Alice 2001), due assillanti idee-visioni si sono coagulate in me: da una parte la soggettiva dell’adolescente, questa idea di caduta-inciampo con possibilità di risalita, dall’altra la filigrana onnipresente in Alice dell’Educazione, della pedagogia infantile, della scolarizzazione. C’era un altro residuo, un altro coagulo: qualcuno, vedendo Requiem aveva notato la presenza strisciante del mito di Alice, ma non aveva apprezzato le tonalità rossastre, la temperatura marrone, irta di ostacoli in cui l’avevamo sepolta: diceva che Alice è il mondo della fantasia, dei colori, della spensieratezza… Ecco, pensai, quando lavoreremo su Alice vietato >18 anni dovremo tenere conto di questa visione, ma all’incontrario.

Deve il teatro competere a tutti i costi col media di superficie colorato, pieno di attributi spensierati? O non è forse proprio un teatro che si rivolge all’infanzia (non per forza anagrafica) a dover porre domande irte di ostacoli? Bisogna proprio passare dal mondo della fantasia già bella e confezionata per arrivare all’infanzia o non è forse l’infanzia che ha le possibilità di costruirsi un suo mondo parallelo, immaginifico, a partire da una domanda, uno stimolo, che gli viene posto?

E pensando a Alice in wonderland, testo emblematico per questa caduta iniziale o risucchio della bambinetta nell’underground, mi ero ricordato di un fatto storico italiano che mi aveva colpito da bambino: la caduta nel pozzo di Alfredino a Vermicino. Alfredino, inciampando, era caduto in un pozzo, senza mai potervi risalire: forse, si è detto poi, l’assedio mediatico, la pressione dei media, la logica dello spettacolo (tre giorni di diretta televisiva senza interruzione) erano stati fatali per la risoluzione del problema. Per farne sentire la voce alla madre, ma anche all’intera nazione, avevano calato un microfono per sentirne gli ultimi battiti cardiaci, i lamenti, i richiami: l’unica risalita alla superficie di Alfredino è stata tramite l’amplificazione, tramite un microfono.

Foné: non riesco a prescindere dalla grande lezione di Carmelo Bene sull’amplificazione, sulla perdita del soggetto mediante la macchina dell’amplificazione, sulla risalita alla superficie del linguaggio mediante il microfono: io divento minuscolo, scompaio in quanto corpo rispetto a un fuori, e nella dinamica fonica questo io-esterno si dilata, si comprime, si solidifica, si scioglie… Non è più un io commensurabile, incasellabile, ma continuamente un’onda transeunte, staccata dal corpo. Tutti sanno che la parola è ciò che è fuori di noi, staccata da noi: il linguaggio nasce dunque in assenza di noi, là dove non siamo, appena fuori, accanto a noi. L'amplificazione garantisce in maniera esplicita questo divorzio tra noi e il linguaggio, questa frattura inconciliabile. E ci fa riflettere sulla fisicità del linguaggio parlato: pura onda, emissione di frequenza, superficie sonora in divenire.

Giocare con il linguaggio. In Lewis Carroll tutto sembra presagire la macchina attorale di Carmelo Bene: Alice cade giù in una tana e muta continuamente forma, perde l’identità di quel sopra e tutto questo nel momento in cui scopre che le parole possono essere rivoltate e che in questo strano mondo il senso e il nonsenso convivono uno accanto all’altro, abitualmente. Scoprire il coesistere di senso e non senso, toccare con mano il paradosso, anzi viverlo, esperirlo è per Alice la risalita alla superficie del linguaggio, scoprire che il linguaggio è come il nastro di Moebius, per cui se lo percorri ti trovi sempre dallo stesso lato, come col senso e il nonsenso, sei sempre nella parola, nella designazione, in quel fuori da sé. La bambinetta prende gusto alle parole nel momento in cui scopre che possono essere rivoltate, quando scopre la loro falsa profondità, e che invece di essere in un underground ci si trova in un mondo designato, nominato, meraviglioso, virtuale, inconsumabile, di superficie, bidimensionale, come nel mondo delle carte o degli scacchi. Giocando col linguaggio questo mondo può mutare a piacimento, trasformarsi, sempre divenire.

Humpty-dumty oppone l’impassibilità degli avvenimenti alle azioni e passioni dei corpi, l’inconsumabilità del senso alla consumabilità delle cose… la resistenza della superficie alla mollezza della profondità… Passare dall’altro lato dello specchio… è arrivare in una regione dove il linguaggio non ha più rapporto con ciò che è designato, ma solamente con ciò che è espresso, vale a dire con il senso. Tale è l’ultimo spostamento della dualità: ora passa all’interno della proposizione. G.Deleuze, Logique du sens

Impenetrabilità e dualità dei due mondi, di qua e di là dallo specchio, tra significante e significato, tra teatro e vita, tra spettatore e attore, tra bambina e adulto, tra recita e realtà. C’è sempre un sottile muro, un filo di lama, che divide inesorabilmente chi è di qua da chi è di là dallo specchio: di là si può essere e non essere, affermare e contraddire, negare e affermare, esprimere dinamicamente, paradossalmente; in teatro lo spettatore sta nell’immobilità della poltrona, scompare in quanto soggetto, osserva da un fuori, spesso si avvicina alla visione in maniera giudizievole, non affettiva, aperta alle contraddizioni, vuole incasellare, capire, designare, possedere. Strano luogo il teatro: nelle Lettres persanes di Montesquieu i Persiani che vanno per la prima volta a teatro a Parigi e mandano lettere alle loro mogli dall’Europa sono sconvolti da questo strano luogo dove qualcuno, su un piano rialzato parla e si muove tantissimo, mentre di qua, sulle tante poltrone, le persone rimangono immobili, come congelate in un patto già acquisito: dovranno stare ferme, immobili, costrette ad ascoltare, a vedere, come pietrificate, per alcune ore.

Leggendo tra le pieghe di Alice in wonderland risulta evidente un continuo riferimento alla scolarizzazione, all’idea pedagogica. Moltissime canzoni, storielle sono parodie di altrettante lezioni dell’epoca vittoriana, i testi sono pieni di rimandi alla pedagogia dell’epoca, dalla matematica, alla geografia, alla storia. Non dimentichiamoci che Lewis Carroll era un reverendo, Charles Lutwidge Dodgson, insegnante di matematica e logica, pare noiosissimo, molto inserito nelle dinamiche pedagogiche. Si era inventato, però, forse per entrare in contatto con le bambine che amava, uno pseudonimo con cui dichiaratamente poter sovvertire la logica di quell’incasellamento, di quella compressione e tramite quella doppia identità inventarsi un mondo raccontato dove le stesse regole sono ribaltabili, dove l’insegnamento viene scavalcato e risulta senza profondità, quello che è, puro linguaggio commensurabile che non potrà mai cogliere la complessità dello status infantile.

Mettere dunque una bambinetta-adolescente in un luogo geometrico, in un’auletta di scuola, piccola, squadrata, che si offre all’esterno mediante una vetrata. Luogo di esposizione, dunque, di cui lei non sarà consapevole, perché all’interno la superficie del vetro risulta come quella di uno specchio e la mancanza di luce nell’esterno gli garantisce poca profondità, come avvolta da nebbia.
Questo luogo non ha colori, è in bianco e nero, non garantisce la sfumatura, è un sì o un no, e qui vige la regola geometrica, la regola ferrea degli scacchi. Tra una linea e l’altra l’inciampo possibile in un pavimento gommoso, che cambia forma a seconda della pressione. Le stesse pareti sono di gomma, tutto ha molteplici dimensioni. Captiamo ogni parola della bambina mediante un microfono, ben esibito: noi siamo pronti a una nuova diretta, come nel caso di Alfredino a Vermicino. Vogliamo captare ogni inciampo, ogni vibrazione. Cosa succede a una bambina se la catapulto in una tana scolastica, esposta al lookism degli adulti qua fuori, per di più muniti di una protesi per catturarne i suoni, le parole? Potrà riscattare le proprie cadute? Mediante cosa? E’ possibile trovare il colore, la vitalità, abbandonarsi a un fluido divenire in un luogo incasellato, così compresso e geometrico, dove la stessa recita è il compito designato? Può l’infanzia rimanere tale, soprattutto nelle pieghe di una logica adulta? E ancora: siamo noi che guardiamo, dentro lo specchio, o viceversa?

Nonsenso non solo verbale: la gomma, gli oggetti di gomma sono degli oggetti nonsenso. Un remo di gomma non fa il suo lavoro, invece di garantire la forza motrice crea solo attrito, si piega all’acqua. La gomma è paradossale, nega continuamente la sua stessa forma, non è commensurabile, dipende sempre dall’azione di un soggetto, dal peso, dalla pressione. Affogare nella gomma, sprofondare nella coesistenza di senso e non senso, in questa vertigine di linguaggio.

Ogni educazione nazionale è in qualche modo scandalosa: parte dall’idea della pianificazione dei cervelli secondo lo spirito dell’ingegnere, a prescindere da ogni singolo corpo, secondo le regole dell’incasellamento. Noia di ogni scuola, che non contempla veramente ogni singola identità, dove anche nell’insegnamento si ripropongono le false gerarchie di potere e si rispecchiano tutte le compressioni, ancora una volta e via di seguito, senza tregua. Dove tre-quarti del tempo è tempo perso, che uccide la vitalità degli spiriti inquieti e tutto è sempre designato secondo regole precise, che è vietato sovvertire. Dove vige una morale di Stato, nazionale, da rispettare, sotto il sorriso del nonno di turno.

Paradosso linguistico: continuamente le cose vengono nominate, designate dall’insegnante in un modo, la bambina le vive in un altro. Per Alice il reale è consumabile, un budino è realmente qualcosa di solido e zuccherato da poter ingerire, per cui lei ha fame. Per la regina il budino è un nome, viene personificato, è pura superficie, per cui non esiste se non nella possibilità assurda di poterlo presentare ad Alice, come un personaggio delle carte, virtuale. Ci troviamo di fronte alla stessa designazione che esprime due sensi molto differenti fra loro. Parodosso della scena: nella realtà siamo tutti condannti alla nostra casella, a un mondo di superficie che vuole continuamente designare, affettare, nominare, possedere tramite una designazione unidirezionale che è fuori dai corpi, menzognera, mentre il teatro, che pure utilizza il linguaggio della designazione, parlato ma non solo, permette la convivenza di più sensi in una volta, la ribaltabilità del senso comune, è scandaloso perché permette di stare col corpo dentro e fuori contemporaneamente, su entrambi i lati del nastro di Moebius, sei vivo e sei morto, congelato nella gabbia semantica, sintattica di una drammaturgia e pure sei il punto di fuga delle energie che si generano verso il fuori. Ogni attore sa di essere un paradosso vivente, sul palco e che vive nel paradosso ogni giorno.

Quarta casella, quinta casella, ecc. Eppure la stanzetta è sempre quella e si sta sempre nello stesso luogo, si inciampa a loop, come la musica, ipnotica: è sempre Offenbach, rallentato, dilatato, ripetuto, spezzettato, sovrapposto, rovesciato. Si sta nello stesso punto, non si avanza mai, nonostante vengano nominate colline, siepi, case, fiumi, monti. La casella è sempre la stessa, è solo il mondo dello specchio, parallelo, immaginale, che ci permette il “trasloco”, la metafora, il passaggio di là, la dinamica vitale, interrogativa. Cogliere ciò che è di là dallo specchio, accanto a noi, inesprimibile, per sfuggire alla logica coercitiva della casella.

Regina bianca: Alice diventa regina, i ruoli si ribaltano tra lei e l’insegnante. Una bambina che ha visto lo spettacolo nei primi giorni di repliche ha subito detto che voleva diventare la regina bianca, perché è quella che comanda di più. “Chi è che comanda” scrive la bambina sulla lavagna di scena: è la domanda giusta. Lo scopo è quello di diventare regine, prendere il posto dell’insegnante, diventare finalmente adulti? Poter ripetere, all’incontrario, la stessa dinamica? “Adesso ci provo”, dice la bambina, alla fine, quando la regina-insegnante è esausta, forse morente e vuole farsi raccontare una storia: meglio lasciare la domanda aperta, il teorema irrisolto, riuscire a sottrarsi alla logica secolare del potere pedagogico.

Soggettiva: chi guarda e chi è guardato? Alla bambina viene posta sulla testa una lampada da otorinolaringoiatra, all’inizio del sogno, per cui siamo guidati nella visione dal fascio di luce che si sposta sugli oggetti che lei decide di guardare. Lei stessa riesce a vedere gli oggetti solo se porta la luce su di essi: è la chiave di entrata, le viene permesso il lusso di uno sguardo libero, non condizionato, per affrontare questo viaggio infero. Gli sguardi sono molteplici, altri occhietti la scrutano e scrutandola la illuminano, sono due lampade a bassa tensione, gestite dal burattinaio, dall’alto, mediante una lunga e sottile protesi di alluminio. Un microscopio è nella cassettiera, bene in vista fin dall’inizio, l’insegnante ha due binocoli con cui scrutare meglio, il vetro-specchio è lui stesso una enorme lente, tramite cui concentrare lo sguardo.

Teorema: partire da una domanda e cercare di verificarla, senza conoscerne le conclusioni. Sempre il teatro dovrebbe partire da una domanda, essere alchemico. Il film di Pasolini, Teorema, rimane per me un modello fondamentale per l’approccio a qualsiasi nuova opera da realizzare.

Unico colore presente in scena al di fuori del bianco e del nero, l’incarnato della bambina, i suoi rossori, il colore degli occhi, che contrastano il sistema binario alla base di tutto lo spettacolo. Altri colori: nella musica, nelle voci, nei gradienti della luce, nelle sue sfumature, nei riflessi, nelle trasparenze della gomma, nella magia delle trasformazioni.

Vortice di tutte le domande alla base di questo teorema: si annullano a vicenda oppure si concatenano in una serie infinita di possibilità, creano un gorgo, un inciampo. In fonica quando un microfono e un altoparlante sono molto vicini si crea un feedback, un anello sonoro detto anche “larsen”, un fischio assordante, un ritorno continuo dello stesso suono riprodotto e ricatturato all’infinito: questo spettacolo mi da questa sensazione, di annodamento su se stesso della propria domanda, all’infinito.

Zero assoluto: è il voto o vuoto che si potrebbe dare a questa bambina. Lei può qui dentro per una volta toccare con mano lo zero, sprofondare nello zero, in questo cerchio: voto o vuoto, sprofondare nello zero, nei vuoti del linguaggio è la scoperta che lo zero non è poi così male, è la scoperta di un grande riscatto.

       
     

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